La fiction: Uno, nessuno e…”Gli ultimi del Paradiso”

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Possiamo chiamare ancora fatalità o destino il prezzo della vita di un uomo quando viene sacrificata per il troppo lavoro? Cos’altro deve accadere per farci capire che non c’è niente...

Possiamo chiamare ancora fatalità o destino il prezzo della vita di un uomo quando viene sacrificata per il troppo lavoro? Cos’altro deve accadere per farci capire che non c’è niente di più importante della vita di una persona? Domande e dubbi che evidenziano l’emergenza sociale di un fenomeno che necessità di presa di coscienza e responsabilità. Ed è giusto affrontare un tema così scottante e drammaticamente attuale come quello delle morti bianche. È senza dubbio corretto denunciare uomini senza scrupoli che “giocano” con la vita di altri uomini ignorandone i più elementari diritti. È necessario diffondere una cultura della protezione e il rispetto, prima di ogni altra cosa, della vita.

E la narrazione seriale televisiva, non quella sognante, immaginifica, che permette una fuga completa dalla realtà, ma la fiction che sa immergersi sempre più nel tessuto quotidiano più scabroso, bruciante può, al giorno d’oggi, trattare tematiche di elevato contenuto sociale coniugandole all’intrattenimento. Cosa che ha fatto la miniserie “Gli ultimi del Paradiso”, scritta da Giancarlo De Cataldo, Luciano Manuzzi e Monica Zapelli, diretta dallo stesso Manuzzi, interpretata da Massimo Ghini, Elena Sofia Ricci, Ninetto Davoli, Diane Fleri, Francesco Salvi, Caterina Vertova, andata in onda domenica e lunedì scorso su Rai Uno.

La fiction narra la vicenda di Mario, un camionista, che assiste inerme all’incidente di un collega-amico, che finisce in coma mentre fa un lavoro che non potrebbe fare. Superando la paura di mettersi contro il titolare della ditta, decide di denunciare, ma il padrone dopo il risarcimento fa fallire la ditta e trasferisce l’attività all’estero lasciando tutti senza lavoro. I colleghi-amici, dopo un momento di sconforto decidono di unirsi in una nuova attività, una pompa di benzina chiamata ‘Paradiso’.

Due le interessanti riflessioni emerse sulla fiction. Da un lato Aldo Grasso ha evidenziato il carattere essenzialmente didascalico e pedagogico della narrazione. Come afferma il critico: « attraverso una storia esemplare si cerca di rendere edotto lo spettatore su alcuni temi sociali di grande rilevanza, con intento edificante (non artistico). Per questo i padroni sono cattivi e gli operai buoni, il mondo è diviso fra vittime e carnefici. Non manca poi una buona dose di moralismo e di prevedibilità: nella trama secondaria, quella che dovrebbe dare sostanza drammaturgica alle “morti bianche”, Mario (Ghini) concupisce la moglie del suo miglior amico, nel frattempo paralizzato. Da quel momento scatta il senso di colpa che lo porta al sacrificio estremo, all’espiazione del peccato».

Dall’altro Adriano Sofri, su Repubblica, va oltre la semplice critica del prodotto audiovisivo e riprendendo il film “Rocco e suoi fratelli” di Lucchino Visconti prova a riconoscere a questa miniserie l’intensità, la forza documentaria e insieme artistica propria del film viscontiano. Addirittura la considera un prodotto “coraggioso”. Non edificante. Non sterile nella contrapposizione tra buoni e cattivi, ma amaro e commovente. Narra, dice ancora Sofri: « di com’è il lavoro nel 2010, cinquant’anni dopo i giovani lucani in bianco e nero (protagonisti delle migrazioni dal sud al nord del Paese) che andavano a spalare la neve milanese e a cercarsi la fortuna in una palestra di pugilato. Com’è il lavoro sui camion omerici e lustri; com’è il carico o lo scarico in uno scalo marittimo o nell’edilizia; come decide un piccolo funzionario di banca di farti fallire e perdere la casa che hai ipotecato; come si sceglie fra un viaggio a portare merce losca e il trasporto in bicicletta di cassette di frutta a domicilio, a salario dimezzato e la fortuna di qualche mancia». Un film popolare, nel senso più elevato del termine.

Ritengo che per quanto in alcuni passaggi la miniserie utilizzi luoghi comuni, effetti plateali che sembrano servire solo a catturare in modo superficiale lo spettatore, nel complesso si assiste ad una storia «rubata» alla quotidianità, storia di camionisti e di viaggi nella notte su strade che non hanno mai fine, biografie di imprenditori, di padroni e mezzi padroni, di appalti senza regole. Di problemi quotidiani. Vicende che non ti scivolano addosso ma coinvolgono lo spettatore, fino alle piccole cose, la preoccupazione dei debiti, le scommesse sul futuro.

Una fiction che dà voce ed espressività al sociale, riaffermando, ancora una volta, la sua capacità di porsi come sistema narrativo centrale del tempo presente e, dunque, di dare ordine e senso al flusso caotico degli eventi. Una narrativa che muove dalle storie di vita delle persone più semplici per costruirsi come racconto sull’etica della responsabilità affrontando una piccola realtà lavorativa, le scelte che si fanno e dimostrando come spesso è la fretta, la “corsa senza regole”, alla base delle morti sul lavoro. Un romanzo sull’Italia che da nome e cognome ai 1.120 morti del 2008 (Rapporto Inail) altrimenti solo numeri su una lista nera o notizie in breve nei telegiornali che rapidamente vengono dimenticati. Una finzione che insegue il romanzo della vita per descriverlo, rielaborarlo e condurlo nella riflessione critica e meditativa del lettore televisivo. Insomma, un grande romanzo popolare. Per non dimenticare. Per non far vincere l’oblio.

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