Siamo al buio di questo locale e riesco a vedere bene solo i mocassini marroni che indossi sotto a questo paio di jeans logori.
Non so quale dei due capi che porti sia più veritiero: i jeans sdruciti da duro o questi mocassini antichi, nonostante tu sia forse neppure cinquantenne.
Sei seduto di fronte a me e ti guardo inviandoti espliciti messaggi di facile abbordaggio.
Non sei il mio tipo, ma sembri triste quanto basta per farmi pensare che quel che farò sarà per il tuo bene e non per il mio.
“Hai delle scarpe assurde”.
Come esordio non è dei migliori, lo ammetto.
Mi guardi imbarazzato e pieghi la caviglia in cerca di capire se questo fatto è un punto a tuo favore o meno.
In qualsiasi altra circostanza non ti avrei preso in considerazione con quelle scarpe ai piedi, ma oggi mi serve un essere umano innocuo, uno che non possa aggiungere nulla di malato a questa giornata.
Mi serve un uomo banale e i tuoi mocassini questo mi suggeriscono.
Mi siedo anche io di fronte a te, arrampicata su uno sgabello più alto del tuo.
Visto da qui, mentre sgrani gli occhi per tenere lo sguardo nel mio, sorseggiando quella brodaglia di drink che tieni in mano, mi sento di dominarti come fossi una mantide religiosa. Non ti troncherò la testa, tranquillo.
Mi parli piano, neppure ti sento. Mi hai chiesto qualcosa di molto sciocco. Sorrido e ti rispondo la prima cosa che non somigli alla verità.
Abito distante da qui e sono una donna con mille impegni: una rassicurante ape operosa normalmente ma stasera una mantide clemente. Questa la verità.
Ore fa ho imboccato una strada che mi portasse lontana da casa. Non sono tornata dopo l’ufficio. Li penso già in agitazione a cercarmi in tutti i posti noti a me e a quel cialtrone di mio marito.
Mi ha inviato per sbaglio un messaggio che, ovviamente, non era rivolto me. Immagino con che cura lo abbia subito cancellato dal suo telefono, senza rendersi conto dell’errore d’invio.
Lo immagino persuaso della legittimità di rendermi lo zimbello di quella ragazzina con cui consuma chili di pasticche blu e rivisita romanzi rosa nella pratica
quotidiana.
Mi tradisce e a me non importa nulla.
Delle due cose, la seconda è quella che mi preoccupa di più.
Continui a parlarmi mentre penso ai miei figli che oramai avranno ricevuto la telefonata accorata del padre: saranno tutti preoccupati, ma solo i ragazzi mi accendono nel petto il senso di colpa di aver dirottato la macchina sulla tangenziale.
Mi sfiori una mano mentre mi guardi intensamente e mi chiedi se sto bene. Io ti sorrido e ti propongo di portarmi altrove.
Scatti in piedi come sull’attenti. Ti chiedo un motel, un posto anonimo e squallido abbastanza per assomigliarmi quel po’ che occorre per arrivare fino in fondo. Mio marito porta la sua ragazza in hotel di lusso che aggiungano centimetri al suo cazzo, tu portami in un motel, ti prego.
Mi guidi fuori e salgo sulla tua macchina. È un’auto vecchissima, degli anni 80, ma è tutto pulito qui dentro e profuma di Arbre Magique. Mi porti in un motel illuminato da neon verdi, lungo la tangenziale che ho percorso per arrivare fin qui. Non l’avevo visto prima.
Entri solo e ti vedo riemergere festoso con le chiavi in mano. Non so neppure come ti chiami. Non ho voglia di tornare a casa neanche adesso.
Il verde del neon avvolge ogni cosa. La porta si spalanca e dentro ancora il verde della luce e della tappezzeria. Sembra un prato sintetico, quasi dovessimo giocare a tennis, come sempre facciamo io e il mio devoto e borghesissimo marito. Non voglio pensarci.
Mi guardo intorno e non c’è nulla che non risalga agli anni 70. Sulla spalliera del letto ancora un’antichissima filodiffusione. L’accendi. Io che pensavo che non esistesse più niente del genere, stasera torno indietro di almeno trent’anni a bordo di una A112 e mi accingo a farmi scopare, mentre la filodiffusione gracchia musica in linea con la sua età. Un viaggio nel tempo.
È di uno squallore adeguato ai tuoi mocassini.
Ti avvicini con sospetto come se, con questa luce verde sulla faccia, ti sembrassi più un’aliena che una donna. O forse ti sembro una mantide religiosa di 60 chili.
Allunghi la mano e mi accarezzi il viso. Non sento nessuna fretta da parte tua. Sei eccitato, lo vedo, ma non vuoi correre. Io voglio essere amata. Ti concedo tutto il tempo che vuoi.
Poi mi tiri con una grazia inaspettata verso di te e poggi la tua bocca sulla mia. Si apre il confine fra i nostri corpi e la punta della tua lingua tocca la mia. Sono baci pieni di curiosità, come fossi adolescente, come fosse il primo bacio mai ricevuto. Minuti interi di baci.
Non ricordavo quanto piacere ci fosse nel sentire il respiro di chi prova un vero trasporto nei tuoi confronti. Siamo stretti e comincio a slacciarti i pantaloni. Sono dozzinali e il bottone si stacca cadendo sulla moquette. Ci metto un piede sopra. Per adesso non ti serve.
Mi slacci la camicia, un bottone alla volta. Sei agile con quelle mani, fluido come un prestigiatore, fai scorrere i bottoni nelle asole e nel mentre continui a baciarmi. C’è odore di alcool e tabacco nel tuo respiro. Mi baci ancora, io ti ricambio mentre la tua mano scivola su uno dei miei seni. Lo raccogli nel palmo ed hai un sussulto. Non avevi mai toccato un seno rifatto? Non te lo chiedo.
Del mio corpo sono solo le mie tette ad avere ancora vent’anni. Eppure stasera, in tanto squallore, mi sento me stessa dopo tanto tempo.
La tua lingua nel guizzo che interrompe i miei pensieri. E le tue mani. E le mie. E i tuoi pantaloni sul pavimento.
Ti sfili i mocassini e via anche quei calzini ridicoli.
Hai dei piedi orribili: una pelle candida, quasi da cadavere, avvolta in quella a basso costo delle scarpe che indossavi.
Ti abbassi e liberi i miei dalle calze e dalle scarpe. Un gesto tenero, quasi fossi una bambina, ti appoggio le mani sulle spalle per non perdere l’equilibrio. Tienimi. Sei la mia roccia.
E tornano le tue labbra e i nostri corpi nudi. Un contatto che mi rende molle. Io che volevo consumarti, io che ero piena di voglia di squallore, mi abbandono al tuo slancio. E tu accogli il mio. Non so nulla di te e non mi piaci, ma sento fiotti d’eccitazione in ogni millimetro del corpo. La tua pelle e la mia. La tua lingua e la mia. Le tue mani e le mie. I miei piedi fra i tuoi e mi spingi verso il letto.
È tutto verde. La filodiffusione canta qualcosa di patetico mentre io avvampo di piacere quando il peso del tuo corpo si sdraia sul mio.
Sento il tuo uccello sulla pancia e le mie gambe schiudersi come una conchiglia fra i flutti.
Mi baci ancora e ti muovi. Un movimento abile, come se tu non avessi altro scopo in questo momento, se non quello di darmi piacere. Immersi nella luce verde, abbandonati, senza sapere nulla di te tranne che hai un gusto di merda per le scarpe, siamo fatti l’una per l’altra: io la donna tradita, tu l’uomo banale.
Io ti tengo stretto, tu mi spingi forte. Prenditi il tuo piacere, è nascosto in fondo alle mie viscere. Spingi forte, ancora, come adesso. Prenditi il mio piacere, è sulla punta della tua lingua, sulla superficie della pelle che scivola dentro alla mia.
Siamo fatti per questo. Mi respiri forte nella bocca l’intimità del tuo alito.
La meraviglia di avere un corpo in questo istante. Tu che non ricordi quanto era perfetto a vent’anni, ti impasti con i miei difetti amandoli come fossero cose nuove e bellissime. Non c’è rimpianto in te, mentre mi scopi. Non c’è rimpianto in me, mentre mi offro al tuo sguardo.
Tu sei mio, in questa stanza. E io tua.
Finiamo insieme mentre la canzone termina non so quale melodia. Sudati e stretti, senza sapere come ti chiami, senza che tu sappia come mi chiamo io. Le scarpe sul pavimento insieme ai vestiti. La testa libera da ogni pensiero e le mie tette di plastica dritte come sentinelle, innaturali come la vita che conduco fuori di qui.
Mi abbracci e mi baci i capelli. Nessuno di noi dice nulla. Sento il tuo respiro farsi calmo. Dormiamo in un attimo. Il sonno che non facevo da anni, chiuso fra le tue braccia magre.
Mi sveglio che fuori albeggia. Tu dormi ancora. I tuoi piedi nudi che escono dalle lenzuola. Un uomo banale.
Raccatto i miei vestiti dal pavimento e vado in bagno. Prima però, mi infilo per un attimo i tuoi mocassini. Sono grandi ed hanno la forma dei tuoi piedi. Devono essere tanti i passi che ci hai fatto e sono tentata di chiederti dettagli. Taccio. Ti guardo. Dormi ancora.
Mi vesto mentre il sole sorge. Il tuo odore e quello della notte trascorsa.
Quando esco dal bagno vedo che mi stai fissando. Vuoi chiedermi qualcosa, lo capisco da come prendi fiato, ma il mio sguardo severo ti fa trattenere. Ti do un ultimo bacio, sfiorato, sulle labbra.
Esco dalla porta e vado alla reception. Passo davanti alla tua auto: alla luce del sole vedo che è verde. Le accarezzo un lungo graffio sulla fiancata. È profondo.
Entro. La tipa mi accoglie con un sorriso malizioso. Le chiedo di chiamarmi un taxi che arriva poco dopo.
Salgo in compagnia di un tassista con troppa voglia di parlare. Mi fa venire voglia di accendere il telefono.
In un attimo arrivano, come sassi, tutti i messaggi dei miei familiari. Non li leggo.
Chiamo mio marito.
“Ma dove cazzo sei?!”, mi accoglie.
“Sto tornando”.