Claudia Durastanti: “La retromania della nostra generazione è un modo di stare al mondo”

di

Data

Lunghi capelli neri, occhi scuri. Maglietta larga e rigorosissime Converse. Dimostra meno dei suoi ventisette anni. Ma non chiamatela "giovane" – si potrebbe anche incavolare.

Lunghi capelli neri, occhi scuri. Maglietta larga e rigorosissime Converse. Dimostra meno dei suoi ventisette anni. Ma non chiamatela “giovane” – si potrebbe anche incavolare.

 

Incontro Claudia Durastanti in una piovosissima sera romana, al Circolo degli Artisti, appena dopo la presentazione del libro “Retromania” di Simon Reynolds. Ci diamo appuntamento lì perché l’autrice di “Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra” (Marsilio, 2010), romanzo vincitore dell’ultima edizione del Premio Mondello Giovani (!), si occupa anche di musica su Mucchio Selvaggio e Indieforbunnies. Per questo motivo ha passato due ore sul palco, ascoltando pazientemente le domande che i giornalisti “più anziani” hanno rivolto al noto critico musicale. Poi ha preso il microfono e ha iniziato a parlare a macchinetta, spiazzando tutti quanti (Reynolds in primis) con una riflessione puntuale e articolata, che dalla musica si è spostata sui grandi temi della nostra generazione – la generazione di quelli nati dopo la caduta del Muro di Berlino, che hanno visto Pertini solo in fotografia e per cui la Guerra Fredda ha il sapore dei Martini di James Bond.

 

Piccola e inadeguatamente stringata parentesi per i non addetti ai lavori: il libro di Reynolds sostiene la tesi secondo cui, negli ultimi dieci anni, i gusti degli ascoltatori e il panorama musicale si siano appiattiti nella nostalgica ricerca e riproduzione del passato. Certo, gli spiega Claudia al termine del suo lungo commento, se avessimo dovuto adattarci ai gusti del nuovo millennio, avremmo dovuto ascoltare solo boy bands. È una specie di condanna, la nostra: cercare dei riferimenti musicali, culturali, politici nel passato. Ma dov’è il problema?

 

È proprio da questo spunto che, rannicchiate sulle panchine del parco all’esterno del locale, una media scura sotto al naso, iniziamo la chiacchierata. Siamo invischiate, ci diciamo reciprocamente, nella ricerca spasmodica di un passato troppo recente per essere scritto nei libri di storia, troppo lontano perché possiamo ricordarlo, ma che comunque condiziona fortemente la nostra quotidianità, sotto ogni punto di vista.

 

 

Gran parte del tuo primo romanzo è ambientato negli anni Settanta, a New York. Ho letto che per te la stesura di questo libro è stata come una liberazione dalla tua “ossessione” per quel periodo storico.

Decisamente. A questo proposito, mi piace ricordare una frase che ha detto Patti Smith a Jonathan Lethem: “Non venite a New York, è una città che vi è stata sottratta”. Come a dire che New York era la loro città, ora non lo è più, e non la si può far rivivere in quel modo. Io non sono d’accordo. Uno può scegliersi il proprio padre e la propria madre. Io mi sono scelta gli anni ’70 a New York. Non è detto che guardare con nostalgia al passato sia necessariamente una cosa negativa. Anzi, spesso i seguaci della “retromania” non sono conservatori, ma progressisti dal punto di vista sociale. È una nostalgia all’indietro, e non sono d’accordo con i critici che escludono la dimensione soggettiva della questione – la “retromania” della nostra generazione è un modo di stare al mondo.

Non a caso, tra le tante vite che s’incrociano sulle pagine del suo libro, gli unici due personaggi “completi” sembrano essere Jane Cormick (che è anche il suo personaggio preferito) e Michael Haskell. Li osserviamo, adolescenti, mentre passano non proprio illesi attraverso agli anni Settanta; ma alla fine, nonostante tutto, dimostrano di essere quelli che non si sono arresi, che non hanno ceduto all’autodistruzione, che imparano a nuotare a quarant’anni, che a un certo punto tornano indietro e recuperano il tempo perduto. Gli altri ragazzi – Francis e Zelda, Alexander, Ginger e Frank – con le loro storie egocentriche di rabbia e follia consumate nei parcheggi squallidi delle periferie americane, incarnano le generazioni successive. Quelle che si sbriciolano dentro agli anni Novanta, che ascoltano i Nirvana nelle cuffie del walkman e non sanno cosa vogliono fare da grandi. Quelli che non sempre ci riescono, a diventare grandi. Rinunciatari a prescindere. Generazioni in cui si nota, a differenza di quelle immediatamente precedenti, la grande assenza della politica nella loro vite.

Non è stato volontario, dice Claudia alzando le spalle. E ho smesso di sentirmi in colpa. La politica implica un forte senso civico, e si occupa principalmente di vedere il mondo non per come è, ma per come dovrebbe essere. Io invece osservo il mondo per come è. L’unica volta che ho provato ad affrontare un tema politico nel libro è stato quando Francis diventa neonazista. Ma anche qui, ho cercato di sottolineare i termini estetici della storia – non tanto la volontà di sterminare qualcuno, quanto la passione per gli abiti, per un certo tipo di cultura. Ricordo di aver letto, nel 2003, in un giornale conservatore negli Stati Uniti, che era “cool” essere di estrema destra. Come se fosse solo un discorso di moda.

Invece l’aspetto preponderante nel libro – e anche della tua vita – è la musica. Ti capita spesso di rileggere dei pezzi e sentirci intrappolate dentro le canzoni che hai sentito mentre li scrivevi? Penso a certi passaggi che vibrano, a certe frasi che ti fanno venire voglia di tornare indietro, sottolinearle, leggerle e rileggerle ancora. Come quando metti in loop le tue tracce preferite.

È vero, ci sono due modi in cui la musica plasma ciò che scrivo. Innanzitutto, sicuramente ha influenzato le citazioni e i titoli dei paragrafi del libro. In secondo luogo, ha un fortissimo ascendente sul ritmo, che a volte segue la frase musicale. Per esempio, le frasi migliori sono come degli assoli (non che io adori l’assolo, anzi lo trovo solitamente un po’ kitsch, ma insomma). Le immagino come un basso o una batteria costante. Diciamo che il genere che ha influenzato maggiormente il mio primo libro è il post punk, mentre adesso sto ascoltando principalmente la musica cantautoriale. Mi lascio affascinare dal verso, più che dal suono.

Qual era il titolo originale di questo libro?

Un secchio di sangue non è significativo”. Poi un mio amico mi ha fatto notare che forse era un po’ troppo pulp. Il perché del titolo definitivo non te lo dico, ma lo sai, perché si scopre alla fine.

Come lavori di solito? Segui una pianificazione precisa?

In realtà non ho un metodo, seguo gli impulsi. Ho questa concezione romantica, per cui scrivo seguendo un’intuizione. L’effetto negativo è che, mentre a volte scrivo anche dieci pagine tutte d’un fiato, poi mi fermo per un mese. Ho come delle fitte, delle ispirazioni spesso innescate da un fattore esterno – come dicevo, una canzone, un libro, un film. Sì, decisamente penso di subire una forte influenza da ciò che è esterno.

Scrivi a mano o al computer?

Appunto, soffrendo di queste fitte, di queste urgenze, di solito scrivo a mano, in biro. Ma poi manipolo successivamente il tutto a computer.

Quale sarà il tuo prossimo libro (sempre per Marsilio, ndr)?

Sto lavorando sulla malattia mentale. È un tema che mi affascina molto, a partire dalle modalità in cui posso affrontarlo. I miei due protagonisti faranno un percorso inverso a quelli del libro precedente: il martirio contro la redenzione, l’emancipazione dal dolore come processo positivo.

Che libro stai leggendo adesso?

Dana Spiotta, “Stone Arabia”. E le “Lettere di compleanno” che Ted Hughes dedica a Sylvia Plath.

Claudia si scusa un attimo, si alza e saluta un paio di amici. Parla con loro di album e autori a me completamente sconosciuti, lasciandomi gustare il mondo meraviglioso e un po’ nerd della critica musicale. Ha un modo di parlare morbido, con un accento quasi romano (nonostante l’infanzia newyorkese e l’adolescenza nel Sud Italia), che scivola via e leviga le parole, così simile al linguaggio che usa nel romanzo.

Quando ritorna le chiedo come mai, quando ha ritirato il Premio Mondello Giovani, ha tenuto a sottolineare che non le va di essere chiamata “giovane”.

Non sopporto la feticizzazione dell’attenzione al “giovane”, considerato un fenomeno di breve periodo. Nessuno pensa che tu possa cresce ed evolverti, nessuno considera la struttura che c’è dietro – sei soltanto “un giovane”. Anch’io sono stata a lungo ossessionata da questo statuto anagrafico. Pensavo: “Oddio, se non pubblico a 18 anni sono una fallita!”; è un’ossessione per questi giovani geni che poi di solito fanno una brutta fine. Penso che sia invece bello testarsi sul lungo periodo; sono felice di aver pubblicato adesso – e sì, sono accidentalmente nata nel 1984.

Nonostante questo, che cosa vorresti fare da grande?

Oddio, questa è difficile!Penso la speaker radiofonica.

Se non fossi tu, chi vorresti essere?

Tantissime persone. Per restringere il campo, direi che nel mondo del cinema vorrei essere Winona Ryder; adoro quel suo senso di disagio e inadeguatezza, quel suo interpretare sempre ruoli empatici. Per quanto riguarda la musica, Patti Smith – prima delle paranoie fricchettone, però.

E sulle paranoie fricchettone di Patti Smith, entrambe finiamo la birra e torniamo con le rispettive Converse per terra. Sul taxi verso casa, mentre sorrido alla dedica, diagonale e verde smeraldo, che Claudia ha scritto sulla prima pagina, penso che per la prima volta nella mia vita l’incontro con l’autrice è stato decisamente all’altezza del libro.

Altri racconti
in archivio

Sfoglia
MagO'