C’era una volta un città grande, che si chiamava Roma. C’era una volta, in quella città grande, un quartiere piccolo, che si chiamava San Lorenzo. C’era una volta in quel quartiere piccolo, dentro quella città grande, una casa piccola in cui viveva una ragazza grande, quasi sempre addormentata.
C’era una volta Costanza.
Costanza spalancò gli occhi e fissò il soffitto. I numeri luminosi della sveglia a led segnavano le quattro del mattino. Aveva passato la notte con la bocca secca e i piedi infreddoliti e dalla finestra, lasciata aperta la sera prima, entrava una luce freddissima. Costanza sbatté le palpebre ancora appiccicaticce di sonno e si guardò attorno, girando il collo a fatica: era diventata così grassa che non riusciva nemmeno a vedersi i piedi. Ansimando si alzò a sedere. Una terribile puzza di sudore le premeva contro la pelle e sentiva la testa formicolante, come fosse piena d’ovatta. I pensieri si incollavano gli uni agli altri, si impastavano, pesavano dentro alla testa e tutto ciò che riusciva a fare era sedere sul letto con i pugni piantati contro il materasso a fissare il termosifone spento. Dormiva troppo. Dormiva sempre. Tutto il giorno. Sul comodino accanto al letto la boccetta di Lexotan mezza vuota aspettava di essere versata; non più nel bicchiere, ormai da qualche settimana, direttamente in gola. I cartoni di pizza, cibo cinese, buste di patatine, croste di formaggio, lattine di Coca-Cola, aspettavano pazienti, sparsi sul pavimento, che Costanza li raccogliesse e buttasse via. Speravano invano. La sua camera le pareva ancora più piccola del solito. Cominciava a temere che un giorno o l’altro avrebbe picchiato la testa contro il soffitto o che sarebbe rimasta incastrata tra le pareti del corridoio. Costanza prese un respiro profondo e si alzò in piedi. Deambulò fino alla finestra, accompagnata dagli unici rumori nella stanza: lo sfregare delle sue cosce grosse e il raspare delle unghie tra i ciuffi di capelli intrecciati di sporcizia. Spiaccicò il viso porcino contro il vetro e guardò giù. Quando andava ancora in terapia, lo psicologo le diceva che doveva ritrovare la gioia delle piccole cose, che doveva guardare fuori dalla finestra e rendersi conto di quanto fossero belli gli alberi, la natura e di quanto i tramonti facessero venire le lacrime agli occhi. A Costanza invece stava tutto sul cazzo: alberi, natura e tramonti, ma soprattutto le stavano sul cazzo le persone. Dal cancello del condominio di fronte uscì un vecchio con il suo cane, vecchio pure quello. Costanza li guardò e le stettero sul cazzo; per cui si voltò, si ributtò sul letto, ingoiò trenta gocce di Lexotan e si addormentò.
Costanza spalancò gli occhi e fissò il soffitto. Il braccio su cui aveva dormito con tutti i suoi centoventisette chili, non se lo sentiva più. Grugnì e rotolò faticosamente giù dal letto. Aveva fame. Si trascinò fino alla cucina, superando a passi lenti il covo di grosse formiche nere sotto l’armadio a muro. I numeri led della segreteria telefonica la informarono che aveva diciotto messaggi. Sicuramente erano tutti di sua madre. Fece partire il primo, così, per sfizio.
“Costanza, tesoro, sono mamma. Io e tuo padre siamo molto preoccupati per te. Abbiamo sentito il dottore, dice che è da più di un mese che salti le sedute. E che l’ultima volta che hai consegnato il questionario “Cosa succede-come mi sento”, non è riuscito a capire nulla della tua grafia. Senti, a mamma, ti ho lasciato i soldi come al solito nella cassetta della posta. Adesso scappo, ché io e tuo padre andiamo a cena dall’ambasciatore del Brasile. Fatti sentire!”
Il questionario, che cazzata! Pensò Costanza, sbuffando. La prossima volta ci scrivo “vaffanculo, stronzo” così vediamo se riesce a leggerlo. Il frigo si lasciò aprire senza fare resistenza. Costanza si coprì gli occhi, abbagliata dalla luce di un barattolo di maionese e una fetta di torta al cioccolato. Un grosso topo grigio col culo spelacchiato si voltò a guardarla perplesso, dal ripiano del frigo. Lui e Costanza si fissarono a lungo, occhi negli occhi. Alla fine, con uno squittio infastidito, quello si lanciò sul pavimento e Costanza decise che avrebbe rinunciato alla fetta di torta. Tornò a letto. Si versò altre trenta gocce sulla punta della lingua e si addormentò.
Costanza spalancò gli occhi e, per l’ennesima volta, fissò il soffitto. Era l’una del pomeriggio. Dormiva troppo. Dormiva male. Faceva dei sogni terribili. Durante il dormiveglia delle undici e mezza, per esempio, si era vista passare davanti il suo ex, Filippo su una Maserati bianca. La salutava con la mano, mostrando trionfante alla sua destra una sgallettata bionda, secca come uno stuzzicadenti. Costanza aveva provato a corrergli incontro, ma continuava ad addormentarsi prima ancora che potesse raggiungerlo. Filippo era scoppiato a ridere ed era sgommato via con la sua Maserati. Che vada a morire ammazzato, pensò Costanza, girandosi su un fianco, lui e la sua stupida bionda. Filippo l’aveva mollata perché era diventata una grassona apatica e depressa. Che si fottesse, pensò ancora Costanza. Tanto adesso di uomini lei ne aveva ben due: uno era il centralinista della Bofrost, che chiamava ogni mercoledì all’ora di pranzo per venderle confezioni di trentasei hamburger congelati formato famiglia. Aveva una voce simpatica e Costanza se lo immaginava alto e smilzo coi baffetti dritti. L’altro era il fattorino di JustEat che le portava le pizze. Non si erano mai visti di persona, ma scambiavano sempre qualche parola prima che lei gli facesse scivolare i soldi sotto la porta e che lui se ne andasse, lasciando le quattro pizze sullo zerbino. Costanza lo guardava sempre attraverso lo spioncino della porta. Aveva degli occhi azzurri molto grandi, restava fermo sul pianerottolo col casco in testa e si sistemava continuamente il pacco. Pensava che nessuno lo vedesse. A Costanza questa cosa faceva sorridere un po’. Sdraiata sul letto, si erano quasi fatte le due del pomeriggio, ripensava al ragazzo di JustEat. Decise che l’avrebbe chiamato più tardi. Così prese la boccetta di Lexotan e ingoiò le gocce rimaste; ma stavolta, per quanto si girasse, rigirasse, sudasse e si sforzasse, non c’era niente da fare: non riusciva ad addormentarsi. Si alzò dal letto sbuffando come una locomotiva e perlustrò a fondo tutte le stanze, buttando minuziosamente all’aria ogni cartone di riso cantonese, ogni buccia d’anguria. Nel buio quasi completo, Costanza passava da una stanza all’altra, rimbalzando tra stipiti e pareti. Il topo dal culo spelacchiato la teneva d’occhio sconcertato e le grosse formiche nere si disperdevano nel corridoio, per paura di essere calpestate. Costanza si lasciò cadere sul letto e quello tentò di inglobarla come sabbia molle. Respirava a fatica, ciondolava la testa, si sentiva stanchissima, ma non riusciva a prendere sonno e la medicina era finita. Fissava con gli occhi spalancati il termosifone spento, pur sapendo che non avrebbe trovato lì sopra la risposta al suo problema. Si rese conto che non c’era altra soluzione. Infilò, imprecando fra i denti, un paio di scarpe da ginnastica consumate sulla punta e si imbacuccò in una felpa troppo stretta, un cappello e una grossa sciarpa di lana. Uscì dal portone principale, guardandosi intorno circospetta. I raggi caldi del sole delle tre le punsero gli occhi, da mesi abituati a tanta penombra e sotto la sciarpa di lana cominciò a sudare. Si incamminò in via dei Sabelli, svoltò in via dei Volsci e si diresse, camminando muro muro sotto i cornicioni, verso Piazzale del Verano. Un ragazzetto grigio col berretto calato fino agli occhi sventolò la mano in segno di saluto:
“Bella, zia! È un’era che non ti fai viva.”
“Dammi il Lexotan, tutto quello che hai!” tagliò corto Costanza.
“Quello va via come il pane, zia, l’ho finito. Però se vuoi posso darti una cosa nuova. Questa non l’ha ancora mai provata nessuno, ma pare sia la soluzione definitiva, zia. Una sola goccia e dormi un giorno filato. Almeno così dicono. Se te la senti…”
Costanza gli strappò la bottiglia dalle mani e gli allungò cinquanta euro. Poi si diresse verso casa, senza nemmeno salutare. Il topo e le formiche l’accolsero alla porta, ma Costanza non aveva tempo per loro: si buttò sul letto con tutte le scarpe e, senza pensarci troppo si attaccò a collo alla bottiglia e la svuotò. Il materasso cominciò a cullarla dolcemente e, mentre chiudeva gli occhi, le parve di vedere (come in un sogno evanescente) la sagoma di Filippo che si faceva beffe di lei, ai piedi del letto. Gli mostrò il dito medio e finalmente si addormentò.
Costanza spalancò gli occhi e ancora una volta fissò il soffitto. Erano le tre del pomeriggio, ma di vent’anni dopo. Stavolta aveva dormito davvero troppo; eppure, quando si tirò a sedere sul materasso, lo fece senza il minimo sforzo, come se si fosse addormentata solo il giorno prima e si guardò intorno. L’intonaco alle pareti era venuto giù tutto e la stanza era vuota: niente più scrivania, né armadio, né comodino. C’erano solo lei e il letto nel bel mezzo della stanza. Tutti e due, vicini, erano sopravvissuti ad un sonno di vent’anni. Nel silenzio del mattino inoltrato, Costanza perlustrò la casa intera. La porta d’ingresso era spalancata e non c’era più nemmeno il ricordo di un mobile. Qualcuno doveva aver saccheggiato la casa mentre lei dormiva. Costanza si strinse nelle spalle: in fondo non gliene era mai fregato nulla di quei vecchi mobili puzzolenti, né del frigo, né del divano, né della TV, né tanto meno della segreteria telefonica coi messaggi di sua madre. Almeno adesso avrebbe avuto una valida scusa per non doverla richiamare, sempre che fosse ancora viva. Le dispiaceva solo un po’ per quel grosso topo e per le formiche che, disturbati da tutto quel trambusto nella loro routine tranquilla, dovevano aver fatto le valigie. Nell’armadio a muro erano rimasti solo due vestiti: una stupida gonna azzurra e una felpa rosa. Erano così orrendi che persino i ladri non se l’erano sentita di rubarli. Costanza sgusciò fuori dalla sua vecchia tuta grigia e, mentre restava nuda nell’ingresso di casa, si accorse che per la prima volta dopo anni, riusciva a vedersi i piedi. Si accorse che nella gonna ci sarebbe entrata almeno quattro o cinque volte e che la felpa era così smisurata da poterci giocare a nascondino dentro. Costanza se le sistemò addosso alla bell’e meglio e si avviò verso la porta. Sullo stipite di fianco all’entrata era incastrato un biglietto con una scritta in corsivo:
“Sono passato a trovarti, la porta era aperta. Eri così bella e magra, Costanza, che mi è venuta voglia di baciarti. Allora ti ho baciata, ma tu hai continuato a dormire. Casomai dovessi svegliarti, chiamami.” E poi un numero di telefono. Firmato: Filippo. Costanza si pulì istintivamente le labbra con la manica della felpa; e le venne da ridere. Che sfigato, pensò. Rise e rise e continuò a ridere finché non le vennero le lacrime agli occhi. Poi accartocciò il biglietto in una mano e, oltrepassando la soglia di casa con un sorriso, se lo gettò alle spalle.
C’era una volta una città grande. Un quartiere piccolo. Una casa piccola dove viveva una ragazza grande. Ci viveva, perché adesso non ci vive più. Costanza decise che era stanca di dormire; se la sarebbe fatta a piedi fino a Stoccolma e poi, chissà, forse fino a Mosca. In fondo aveva tanto tempo da recuperare e si era solennemente ripromessa che per i prossimi vent’anni non avrebbe più dormito neanche un solo giorno.