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“Come sibila il vento stasera!” pensò Fiorenza mentre sentiva la veste gonfiarsi come una vela al maestrale: il corpo iniziò a levitare mentre i lunghi capelli rossi ondeggiavano in aria...

“Come sibila il vento stasera!” pensò Fiorenza mentre sentiva la veste gonfiarsi come una vela al maestrale: il corpo iniziò a levitare mentre i lunghi capelli rossi ondeggiavano in aria; le braccia e le mani erano ali che inducevano un volo soave, le gambe e i piedi un timone che ne variava la direzione. Anche i pensieri erano lievi e seguivano un suono acuto, lontano. “Ma come sibila il vento stasera!” continuava a pensare, inquieta, Fiorenza. Poi comprese che era la febbre a farla fluttuare nell’aria, rossa in viso e con la testa confusa: ne rimase un po’ contrariata perché le piaceva quel rimanere sospesa e leggera come una musa preraffaellita. Ripiombò sul letto con il corpo e la mente e sentì il sudore bagnarle la pelle e la camicia da notte. “Questo sibilo mi pare il suono di un flauto traverso… sì, come quello de “Il cardellino” di Antonio Vivaldi che ho ascoltato l’altro mese alle prove… Ma dove lo stanno suonando ora?”. Fiorenza sapeva bene che nessuno dei suoi vicini di quella semplice casa d’Oltrarno suonava il flauto né un altro strumento.
Lei, invece, amava la musica e, appena poteva, oltrepassava l’Arno, camminava veloce verso piazza delle Belle Arti, strizzava l’occhio al portiere ormai complice e si rannicchiava in un cantuccio ad ascoltare gli studenti dell’Istituto musicale prepararsi a un esame o a un’esibizione. Lì nascosta gioiva di un trillo, si meravigliava per un inatteso arpeggiato, si lasciava trasportare da una fuga e volava rapita quando le note si staccavano da terra e, non più roboanti, si rincorrevano in aria come nubi leggere e veloci che si sovrapponevano le une alle altre ridisegnando le loro forme nel cielo. Si accontentava di quei suoni rubati, non potendo accedere alla sala da concerti del “Buonumore”, lei, popolana di una traversa di San Frediano, non ammessa a circoli e scuole riservate a classi sociali più ricche ed elette nel giovane Regno d’Italia che pochi anni prima aveva avuto Firenze come sua capitale.
La ragazza si sentiva appagata e ringraziava il signor Folco, il quale apriva il portone d’ingresso all’alba, lo richiudeva la sera dopo il tramonto e le permetteva ogni tanto di accedere a quel luogo magico che la faceva sognare. “Entra, Fiorenza, fa’ presto, e non ti fa’ vede’ che te ne stai lì rintanata a senti’ la musica. Perfino il più sensibile dei professori stenterebbe a crede’ che una citta come te va dietro alle armonie mentre le tu’ amiche rincorrono le farfalle nei prati!”. Ma Folco conosceva quella predilezione di Fiorenza e cercava di assecondarla come meglio poteva, certo che la ragazza avrebbe eluso l’altrui sorveglianza.
L’unico approccio musicale che i suoi genitori le avevano concesso era di far parte del coro della parrocchia che accompagnava natali, pasque, matrimoni e funerali. Non era proprio il massimo, ma così aveva potuto imparare a leggere la musica, affacciarsi su quel mondo misterioso, affinare la sua voce. Il maestro del coro era Don Mario, un giovane prete che amava insegnare a cantare e non si stancava di ripeterle: “spingi in basso il diaframma per gonfiare i polmoni alla base”, “retrai il torace mentre mandi l’aria più in alto”, “modula l’uscita del fiato dal palato fino alle labbra”. Voleva che percepisse il volume e il movimento dell’aria all’interno del corpo, cercava la sua intonazione migliore, indirizzava i suoi bassi e acuti. Aveva colto l’orecchio musicale e la capacità vocale di Fiorenza ed entrambi ne nutrivano una grande speranza.

“Che gelido ch’è quest’inverno!” si lamentavano tutti quell’anno a Firenze. Per coloro che ricchi non erano in casa faceva freddo davvero, il cibo non era particolarmente nutriente, i vestiti coprivano ma non riscaldavano a sufficienza, fatti di lane grezze e pesanti. C’era da comprare più legna per attizzare il fuoco, così si rimandava l’acquisto di nuovi indumenti. Sarà che il vecchio abito liso non la scaldava abbastanza, sarà che in casa era tutto un batter di denti, geloni che facevano sanguinare le dita, raucedini, tossi e nasi colanti, fatto sta che a un certo punto a Fiorenza andò a fuoco la gola e la voce si affievolì.
Erano giorni che giaceva nel letto priva di forze, ma carica di fantasie mentre pensieri e ricordi si affastellavano nella sua mente febbricitante. A un tratto, prestando maggiore attenzione, si rese conto che il sibilo le veniva da dentro. “Ma allora è un suono che produce il mio orecchio?” si chiese quasi impaurita. “Il tono sembra sempre lo stesso… e questa musica che l’avvolge, cos’è, frutto della mia immaginazione? Non è che sto uscendo di senno…”. Il sibilo non la lasciava in nessuna ora del giorno e prevaleva di notte quando, al buio e in silenzio, diventava opprimente. “Come farò a continuare a cantare nel coro?” chiedeva con apprensione ai suoi genitori. “Vedrai che passerà e tutto tornerà come prima” la rassicurò la madre. “Anche il medico ha detto che questa influenza è pesante e ti ha preso la gola e le orecchie, ma devi portare pazienza. Ora riposati al calduccio, sta’ tranquilla e non sforzare la voce!” e le porse subito una tazza di latte caldo col miele. Trascorsero i giorni e il sibilo un poco si attenuò, cosicché la ragazza cominciò a sperare che un miglioramento, sia pur lieve, ci fosse; intanto riprendeva le forze grazie ai brodi di gallina e agli zabaioni materni, mentre i fumenti balsamici le avevano riaperto il naso e la gola e l’estratto di erisimo rischiarato la voce.
“Fiorenza, Fiorenza” continuava a chiamarla dalla cucina con insistenza sua madre, “ma perché non mi rispondi?”. “Scusa, mamma, non avevo sentito…”. “Ma se ti ho chiamato un sacco di volte! Oh che tu se’ diventata sorda?”. Un gelo calò nella stanza, più tremendo di quello invernale. “Santo cielo, che succede ai miei orecchi?” impallidì Fiorenza. “Prima il sibilo, ora invece ci sento di meno…”. Anche sua madre ebbe gli stessi pensieri e si morse la lingua per aver pronunciato quelle incaute parole. Seguirono prove di udito e visite mediche con grandi sacrifici da parte della famiglia, ma il risultato era sempre lo stesso: quella maledetta influenza aveva danneggiato gli orecchi della ragazza e nessuno si sbilanciava sull’evoluzione del danno in futuro.
Fiorenza entrò in uno stato di ansia che presto si tramutò in angoscia: si sentiva isolata dalle persone che amava, dalla gente del borgo, dai suoni della natura e dalla musica che era la sua grande passione. “Come riuscirò a sopravvivere senza?” si chiedeva ogni giorno, minuto, secondo e le sembrava che il tempo si fosse fermato. Ora non fluttuava nell’aria, ma si sentiva pesante come un macigno. Ora le sue gote non erano rubiconde di gioia o di febbre, ma diventavano sempre più bianche ed eteree. Ora non cantava più nel coro della parrocchia né ascoltava le prove degli studenti, ma rimaneva chiusa in casa per intere giornate in una solitudine nera, che contrastava con la sua età colorata. Non incontrò più né don Mario né il signor Folco. “Ma Fiorenza, esci, torna a vivere, sei rintanata in casa da così tanto tempo!” la esortavano genitori, sorella e fratello. “Torna a camminare lungo le rive dell’Arno, a vedere quanto son belli i campanili e le cupole della nostra città! A passeggiare sulle colline intorno a Firenze tra i lecci e gli olivi ora che sta tornando la primavera!”. Ma lei rifiutava ogni volta con ostinazione, nonostante amasse quei luoghi e la luce che vi cambiava a ogni stagione.
L’isolamento era diventato il suo nuovo stile di vita, l’unica dimensione in cui si ritrovava, il solo spazio in cui si sentiva a suo agio. Col tempo si adattò ai silenzi profondi e ai rumori ovattati, che alternava ai ricordi dei suoni più vari in un esercizio di memoria ed oblio, in un miscuglio di passato e presente. Poi un giorno le giunse dalla finestra un effluvio di rose e capì che era primavera inoltrata. Riprese ad uscire alla chetichella, da sola. Fu come un rito di iniziazione difficile e doloroso, irto di prove per l’anima e il corpo – lei, giovane donna all’alba della conoscenza del mondo.
In una di queste sue passeggiate incontrò un giorno il signor Folco. “Che casualità…” pensò Fiorenza, ma lui la teneva d’occhio da tempo, perché non voleva che annegasse nel mare della solitudine e dello sconforto. Instillò in lei una nuova fiducia e la indusse a redistribuire i suoi sensi: per sopperire alla carenza d’udito, dar più conto alle sfumature cromatiche e ai dettagli delle forme, ai profumi dei fiori e delle erbette in campagna, inseguendo il richiamo di timo, rosmarino ed alloro. Fiorenza imparò ad assaporare più intensamente le ciliegie nel mese di maggio, le albicocche e le pesche in estate piena, le fragoline di bosco in agosto, i fichi e il mosto in settembre, le mele mature col far dell’autunno, l’olio nuovo in novembre. Stava riscoprendo il piacere di accarezzare il soffice manto peloso del gatto e percepirne le fusa, di avvamparsi al torrido sole d’estate, prendere il vento fresco in faccia come una sfida e sentirlo penetrare tra i capelli e i vestiti e quell’aria che le soffiava sul collo e sui turgidi seni la faceva vibrare di vita. Comprese il significato di vedere le voci, ascoltare il silenzio, essere frastornata dalla mancanza di suoni: non si trattava soltanto di ossimori, ma di imparare un linguaggio diverso che le permettesse di interpretare tutto quanto la circondava, di interagire con gli altri senza parlare, di recuperare le armoniche impresse nella sua mente.
A poco a poco le era tornata la voglia di comunicare con le altre persone e, come seguendo un’onda odorosa, si era ritrovata quasi per caso nell’Antica Spezieria di Santa Maria Novella. Fiorenza aveva preso l’abitudine di andarci più volte alla settimana perché, da quando aveva scoperto quel paradiso di aromi, stava ritrovando la leggerezza di un tempo: se non era più la musica ad inebriarla, cominciarono a farlo i profumi di gelsomino e mughetto, di zagara e fresia, di giacinto e lavanda, ma anche i balsami di eucalipto, abete e mugolio. Si lasciava trasportare nell’aria da quelle scie odorose come ghiaccio che sublimava in vapore e, quasi risvegliandosi dal suo sogno olfattivo, si accorse che la commessa si stava rivolgendo a lei: ne seguì l’espressione del volto e il labiale. “Vieni a provare una tisana nell’altra sala; te ne farò assaggiare una a base di buccia d’arancia e cannella e mi dirai se non è originale e squisita!”. Il fumo dell’infuso bollente saliva dalla tazza verso le gotiche volte affrescate, riempiva la stanza con l’aroma agrumato dell’arancia e con quello dolce ed esotico della cannella e Fiorenza ne fu quasi stordita. Lo sorseggiò lentamente e, concentrandosi sul nuovo mondo che le si stava aprendo davanti, capì quanto quegli odori e delicati sapori fossero diventati le sue nuove note. Decisa, si diresse al banco, acquistò un sacchettino di quell’insolito tè, se lo fece incartare e infiocchettare, poi corse ancora una volta in piazza delle Belle Arti: il portone era aperto, ne varcò la soglia, andò incontro al signor Folco e, con un ritrovato sorriso, gli mise fra le mani quel piccolo, profumato tesoro.

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