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Quando lo schermo del computer sulla scrivania di Giovanni era spento, approfittavo della luce che rimbalzava sui palazzi per specchiarmi sulla superficie di trentotto pollici.

Quando lo schermo del computer sulla scrivania di Giovanni era spento, approfittavo della luce che rimbalzava sui palazzi per specchiarmi sulla superficie di trentotto pollici.
Sono voluminoso – certamente – ma anche sobrio ed elegante.
Non sono particolarmente orgoglioso del rosso, bianco e blu della mia copertina, per nulla attinenti ai colori della Nazione, ma non c’è modo, ahimè, di eliminare dalla pelle quest’imperdonabile sbavatura cromatica.
In copertina ho l’esterno notte di un centro commerciale, illuminato da lampioni magrissimi e da luci chiassose di locali gremiti di bevitori dalle guance imporporate dall’alcol.
A mo’ d’incomprensibile didascalia della foto, c’è una parola pregna di contenuto. Scritta, però, in un corsivo frettoloso e a caratteri moderni: cambiamento.
E proprio il cambiamento che mi aveva imposto Giovanni, giornalista di un noto quotidiano era stato il pomo della discordia.
Io, il vocabolario della lingua italiana con oltre 145 mila voci e 380 mila significati, dovevo abbandonare la scrivania, nonostante anni di onorato servizio, per un anonimo ripiano dello studio, dove sonnecchiavano ignobili instant book. Instant era proprio l’aggettivo giusto per quei volumetti di poche pagine. Dopo l’acquisto compulsivo, l’interesse di Giovanni nei loro confronti era durato, appunto, giusto il tempo di percorrere il breve tragitto dalla libreria a casa. Qualcuno era stato sfogliato, nessuno aveva provato l’ebbrezza di essere letto fino in fondo.
Per la verità, nemmeno io sono stato letto dall’inizio alla fine, ma quante volte, alla ricerca disperata del vocabolo che esaltasse o condensasse il suo pensiero, Giovanni ha bevuto alla fonte del mio sapere?
«E così io dovrei finire in mezzo a quella sottospecie di libri, secondo te? Ebbri di errori di sintassi? Dal greco syntaxis. Parte della grammatica che contiene le regole di combinazione degli elementi lessicali e significativi, e quindi di formazione delle frasi.»
«Con i vocabolari on-line vado più veloce. Poi, se occorre… Avrò sempre bisogno di te! Non farne un dramma!»
«Dramma. Fare un dramma di qualcosa, esagerarne l’importanza. Chi esagera? Se resto, ti evito l’utilizzo di lemmi insulsi, quali “fasato”, “schedulato” e altre sconcezze linguistiche di cui fai un uso spropositato ritenendoti moderno».
«Sono costretto – ripeto, costretto – a usare questo linguaggio quando mando mail ai colleghi!»
«Mail. Dall’Inglese. Messaggio inviato tramite posta elettronica. Aborro la lingua di quegli isolani rozzi e bifolchi, lo sai! Messaggio di posta elettronica sottende il medesimo contenuto semantico senza ingenerare fraintendimenti.»
«Certo! Un giornalista che scrive come se vivesse nel secolo scorso… dov’è il problema? Guarda che “fasarsi” con i colleghi e “schedulare” appuntamenti sono espressioni frequenti che, oramai, fanno parte del linguaggio comune!»
«Fasare. Lemma non trovato. Fasatura. Regolazione di un motore a combustione interna in modo che le varie fasi del ciclo avvengano nel momento più adatto per ottenere il massimo rendimento complessivo. Giovanni? Che fate con i colleghi in ufficio?»
«Che facciamo? Ci mettiamo d’accordo su cose, concordiamo appuntamenti. Come dicevo, “scheduliamo” riunioni in uno slot che vada bene a tutti. Che dovremmo fare?»
«Schedulare. Dall’Inglese. Programmare cronologicamente un evento o un’attività. Se utilizzassi un più italico “fissare una riunione” perderesti il lavoro? Tu ripudi la nobile lingua del tuo Paese, te ne rendi conto?»
Sapevo che quando Giovanni tornava dalle riunioni in redazione era sempre stanco e provato. Credevo avesse rinunciato ai propositi di una mia ricollocazione ma avevo ugualmente continuato, sadicamente, a stuzzicarlo.
«Che altro avevi detto? Ah, sì. Slot. Apertura, stretta, fessura. Aereonautica. Spazio di tempo nel quale un aeroplano può atterrare o decollare in un aeroporto. Giovanni? Tu lavori come free-lance per un giornale, no? Ti hanno trasferito a Fiumicino o ti sono spuntate le ali?»
«Free-lance, hai detto? Un termine inglese! Non aborrivi? Lo vedi che, se serve, usi anche tu la lingua degli isolani bifolchi!»
«Free-lance. Termine inglese. Alla lettera: lancia libera. Chi presta la propria opera professionale a varie aziende nel campo dell’editoria senza…»
«So bene chi è e cosa fa un free-lance. Io, però, ti ho fatto una domanda e sono ancora in attesa della risposta!»
«A forza di sentirti, alcuni termini mi devono essere entrati in pancia… Inoltre, ho scelto intenzionalmente lemmi che pure aborro, sia in considerazione del tuo abbrutimento linguistico, sia per renderti agevole la disambiguazione.»
«Io sto qui a disambiguare con te – come dici tu – e intanto il pezzo per domani non è ancora pronto. Lo sai che non posso cannare una deadline! Mi cacciano!»
«Deadline. Dall’Inglese. Termine ultimo, data di scadenza. Cannare. Sbagliare grossolanamente, fallire. Giovanni, mai potresti “sbagliare una scadenza”. Puoi “mancare una scadenza” o, più semplicemente, “non consegnare un lavoro alla scadenza prevista”. Lascia ai tuoi colleghi le oscenità linguistiche di cui mi hai appena reso partecipe, ti prego!»
Giovanni non rispondeva più. Sembrava aver accusato il colpo e abbandonato l’idea di consegnarmi alla squallida compagnia dei libretti che, ammassati insieme, non arrivavano nemmeno alla metà delle mie pagine.
L’ombra della sera intanto s’impossessava delle sagome dei palazzi della strada, abbracciandoli in una morbida e innocua oscurità. Giovanni guardava fuori dalla finestra. Una mano poggiata sul vetro – della quale si sarebbe pentito non appena la moglie avesse notato le ditate – e un’altra ciondolante su un fianco.
Un lento pendolo che trasmetteva il senso del suo sfinimento.
Avevo esagerato? Era stata forse mia l’idea di relegare lo Zingarelli – sto dicendo lo Zingarelli, eh? 145 mila voci e oltre 380 mila significati – su un ripiano qualsiasi, privandolo del posto che meritava? Dovevo rimanere sulla scrivania! Da dove consentivo che i suoi pensieri spettinati divenissero articoli da prima pagina.
Giovanni, all’improvviso, si era scosso. Lasciata la finestra, si era avvicinato con occhi spietati. Mi aveva preso per la costina tra pollice e anulare della mano destra. Senza esitazioni. Premendo con ferocia, mi aveva piazzato tra gli odiati instant book, scialbi compagni chissà per quanto tempo a venire.
Cercando freneticamente nella mia pancia gli insulti più urticanti, avevo gridato con tutte le voci che avevo in corpo, «sei un ingrato, un giornalista pavido e asservito!»
Per non sentirmi più, mi aveva coperto con una cornice di legno dalla quale sorrideva contornato dalla sabbia di Sharm El Sheik e da improbabili compagni di viaggio.
Gli avevo dato dello stronzo. Dal longobardo Strunz. La turpe ingiuria, però, non l’aveva raggiunto.
Giovanni aveva lasciato la stanza.
Infastidito, avevo ignorato i saluti cerimoniosi dei nuovi compagni di ripiano. Non volevo avere nulla da spartire con loro. La poca luce che filtrava dietro la cornice mi permetteva di vedere la parola graffiata sulla pancia in quell’odiato e frettoloso corsivo. Più che una parola “a effetto”, una sciagurata profezia tatuata sul corpo in modo indelebile.
Cambiamento.
«Come esprimere, in maniera circostanziata, il senso della forte mancanza di gratitudine e d’interesse da parte di Giovanni per la mia sconfinata conoscenza? Quell’infido, sciagurato e pavido rimestatore di parole altrui?
Come dare suono e forma al senso d’inadeguatezza e disagio che avverto nel trovarmi qui? Sepolto in un ripiano come tanti altri, in mezzo a sfoglie impalpabili di polvere grigia e circondato da sciocche compagnie? Eh già! Sì, niente da dire.
Proprio un gran bel cambiamento.»

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