“Le dà fastidio l’odore del sigaro?”
“No non si preoccupi, sono abituato ai nuvoloni delle sigarette di mia madre…”
“E’ la terza volta che nomina sua madre. Potremmo definirlo curioso, non trova?”
“Sì, dottore, come vede è davvero più forte di me. Sembra quasi che tutto mi faccia pensare a lei! E’ proprio per questo che ho deciso di affidarmi alla sua saggia ed ampiamente riconosciuta esperienza.”
Il dottor Freud posò delicatamente il sigaro nella ceneriera e mi guardò con occhi penetranti, come se già sapesse tutto quello che c’era da sapere.
“Non è così strano sa? E anzi, non è di certo un caso se per l’Analisi da me negli anni perfezionata ho indicato le associazioni libere come uno dei metodi privilegiati per scandire le più recondite profondità dell’inconscio.”
“Ma dottore, la mia problematica mi sembra tutt’altro che inconscia”, dissi aggrappandomi ai robusti braccioli della poltrona, “il rapporto con mia madre non mi dà pace. Non facciamo altro che discutere e sembra che, per lei, tutto venga prima di me. Mi sento come fossi sempre all’ombra di qualcosa, capisce? E soprattutto non mi permette di approcciare al mondo femminile come vorrei. Sa, in maniera più libidica…”.
“Come ha detto scusi?”
“Approcciare al mondo femminile come vorrei.”
“No, intendo l’altra parola.”
“Vuole che trovi un sinonimo al verbo approcciare? Preferisce sedurre, forse?”
“Niente affatto signor Schmidt”, disse il dottor Freud aggiustandosi gli spessi occhiali, “mi riferivo alla parola “libidica”.
“Oh beh, l’ho letta in un suo libro e in questa situazione la trovavo davvero appropriata!”, risposi allentando la presa sui braccioli. “Ho divorato tutti i suoi libri, nemmeno fossero la sacher che ogni domenica mi prepara mia madre.”
Mi sembrò quasi di scorgere un tremolio, un piccolo spasmo nella figura del dottore. Sembrava improvvisamente star scomodo nella sua stessa poltrona, agitato da cupi pensieri.
“E mi dica”, esclamò sporgendosi lentamente verso la mia persona, “la sacher era farcita con la classica marmellata di albicocche?”
“Beh ecco… credo di sì”, risposi piuttosto confuso. Poi, imbarazzato, mi sentii in dovere di aggiungere altro: “Solitamente è mia madre che si occupa di queste cose. Certo, talvolta le sono stato vicino ma senza mai prestare troppa attenzione al procedimento della torta. Ma in ogni caso lei non vuole che qualcuno sia nei paraggi in quei momenti”, aggiunsi con una punta di rammarico, “perciò come può ben immaginare…”
“Immagino bisogni sacherne assolutamente di più!” concluse il dottor Freud. Sembrava gli brillassero gli occhi, come se i suoi pensieri fossero già altrove. “Mi perdoni signor Schmidt, intendevo dire che bisogna saperne di più per approfondire la sua situazione”.
“Mi scusi dottore, di cosa dovrei perdonarla?”
“Orsù lasci perdere. Vede, sulla base delle mie teorie potremmo paragonare sua madre a una sacher”.
Lo guardai sbalordito. “Dottore non starà mia parlando del mio bisogno inconscio di voler fagocitare mia madre per poter in qualche modo, mi perdoni se sbaglio, introiettare il suo amore?” Sapevo che leggere le opere del dottor Freud sarebbe stata una buona idea. Mi sentivo su di giri! Sarà mica che riusciamo ad essere sulla stessa lunghezza d’onda?!”
“Niente affatto signor Schmidt. Intendo dire che bisogna puntare alla marmellata di albicocche. Ecco…” il dottor Freud iniziò a gesticolare immaginando di avere una sacher davanti a sé, “Sua madre è amara come il coccolato fondente, come quella deliziosa glassa che riveste la torta. Ma ciò che noi desideriamo è la marmellata. L’amore di sua madre! Mi segue?”
“Ehm… noi?”
Il famoso psicoanalista si bloccò di colpo, evidentemente imbarazzato e rosso come le tende del suo studio.
Io e il dottor Freud ci guardammo per qualche minuto, in silenzio, col fumo che lentamente iniziava a diradarsi, quando improvvisamente egli si alzò di scatto.
“Prenda il cappotto e mi segua. Stia tranquillo, per il pagamento della seduta ci accorderemo un’altra volta.”
Piacevolmente confuso da questa reazione inaspettata indossai velocemente il cappotto, impiegando quasi un minuto intero a centrarne la manica sinistra col braccio.
“Dov’è che abita?”
Gli risposi con un sorriso raggiante e subito dopo eravamo già nella sua carrozza. A quanto pare non ero l’unico ad essere emozionato. Il dottor Freud non si era nemmeno levato il cappello e sembrava perso nei suoi pensieri. Probabilmente stava già architettando qualche formidabile tecnica psicoanalitica da utilizzare. Non me la sentii di interromperlo, e per il resto del viaggio alternai il mio sguardo tra lui e l’interminabile successione di palazzi che la carrozza pian piano superava, il tutto con una sorta di leggerezza nel cuore.
Appena arrivati sotto casa quasi dovetti trattenere il dottore, avventatosi in tutta fretta verso il portone più vicino.
“Dottor Freud, aspetti, il mio portone è quello sulla destra!”
Allora lui quasi inciampando mi guardò e cambiò direzione, facendomi segno di stargli vicino.
Bussammo.
Pochi secondi dopo mia madre era sulla porta
“Mamma, ti presento il dottor Freud, sai, il medico dal quale ieri ti avevo detto che sarei andato”, le dissi con un sorriso sprezzante.
“Buongiorno signora. Mi lasci prima di tutto dire che non è da me visitare un paziente direttamente a casa, e per di più presentandomi in questo modo così diretto a sua madre. Ma il suo caso richiedeva assolutamente la mia presenza qui. Spesso, sulla base della mia esperienza clinica, ho potuto constatare come la madre rappresenti il fulcro della vita dei figli, e come il suo comportamento ne possa determinare il destino. Era pertanto assolutamente prioritario per me, in quanto medico e psicoanalista, agire in prima persona, prima che sia troppo tardi, per guidare suo figlio verso la più felice delle guarigioni.”
Mia madre rimase in silenzio durante tutto il discorso, guardando ora gli occhi, ora le mani quasi tremanti del dottor Freud. Era spettinata e in grembiule, grembiule sul quale vi erano delle macchie, macchie che sembravano essere di…
“Cioccolato!” Io e mia madre sussultammo, guardando sorpresi il mio presunto salvatore. “Quello che ha sul grembiule sembra essere del cioccolato fondente, ingrediente oltremodo essenziale di una certa torta assai cara alla nostra Vienna!”
Mia madre squadrò il dottore con l’accenno di un sorriso sulle labbra. “Sta parlando della sachertorte?”
Freud prese le mani di mia madre ancora sporche di cioccolato e il suo cappello ruzzolò giù, vicino la porta. “Parlo della chiave per guarire suo figlio, signora. Del dolce e morbido sapore della guarigione, che talvolta può assomigliare a una fantastica confettura di albicocche…”
Mia madre mi guardò con complicità e io le ricambiai un timido sorriso. Nonostante fosse spettinata e in tenuta da cucina era bella e, soprattutto, sorridente dopo mesi e mesi.
“E allora penso che lei debba entrare e mangiarsi una fetta di sacher, anche perché credo che mai mi sia venuta così buona, dottor Freud”. Il dottore e mia madre si guardarono, ancora mano nella mano.
Immagino che se non avessi sentito mia madre piangere in cucina, se non avessi colto come mi guardava quando le parlavo dei Suoi libri, se non avessi avvertito l’interesse con cui mi tempestava di domande su quell’uomo, la sua curiosità che pian piano la faceva tornare a vivere, se non avessi capito che l’unico momento in cui mia madre sembrava felice era quando le parlavo di Sigmund Freud, non mi sarei mai presentato allo studio del dottore con il preciso intento di attirarlo a casa mia nominando la sachertorte. Il dolce preferito di sua madre.
Ma la mamma è il fulcro della vita dei figli, no? Ed è proprio per questo che adesso sono rimasto seduto qui, fuori la porta, guardando il cappello color cioccolato fondente del dottor Freud.