Sorpreso da un infarto subdolo e devastante, moriva nella sua cantina mio nonno. La persona alla quale ero legato in modo viscerale, totale. Da lui avevo imparato non solo la saggezza nelle cose della vita, ma tutti i segreti e le verità sul mondo del vino.
Se sto diventando sommelier, ora, lo devo a lui, all’amore per questa arte del “costruire il vino”, come diceva lui, che mi ha trasmesso nelle infinte ore passate insieme fra i filari e in cantina.
Il nonno e il vino: due entità per me inscindibili. L’odore pungente del mosto era lo stesso della sua persona, dei suoi vestiti. Se sento quell’inconfondibile miscela di uva, zucchero, terra e acido mi giro sempre per cercarlo con lo sguardo, sicuro che lui sia lì da qualche parte.
E poi il virus. Il maledetto Covid-19.
L’ho sottovalutato all’inizio, come tutti, e all’arrivo del lockdown sono stato felice di avere tanto tempo per preparare, studiando, l’esame finale per il corso avanzato da sommelier, il mestiere che avevo sognato di fare fin da piccolo e che ora sono vicino a raggiungere.
Ma adesso che il virus l’ho contratto, per leggerezza, in primavera, mi trovo a combattere con l’eredità più nefasta per me, di quell’infezione.
Ageusia.
Questo il termine che l’infettivologo ha citato per spiegarmi la mia situazione attuale.
Ageusia da Long Covid.
In pratica ho completamente perso il senso del gusto. Il medico mi ha spiegato che ci sono troppi pochi dati scientifici ancora; pertanto, non è stato in grado di dirmi quanto potrà durare: poche settimane, forse, o alcuni mesi. Non è escluso che possa essere definitivo.
L’incertezza della durata cambia poco l’impatto che questo avrà sulla mia vita: fra due settimane avrò la prova pratica finale per l’abilitazione all’ultimo livello di sommelier. Dovrò essere in grado di riconoscere i vini e saperli abbinare a determinati cibi.
In pratica dovrò assaggiare, riconoscere e commentare quello che mi verrà sottoposto senza etichette, sulla base di quello che sentirò con l’olfatto e soprattutto con le mie papille gustative dovrò emettere dei giudizi e suggerire consigli di abbinamento gastronomico.
Come potrò mai farlo, se tutto quello che sento nella mia bocca, in termini di sapori, è il nulla?
Sto facendo molte prove in questi giorni, dopo che la nefasta parola della diagnosi dal sapore di antica Grecia è entrata nella mia vita.
Con gli occhi chiusi, concentrando tutta la mia attenzione nella bocca, non riesco a distinguere il sapore di una mollica di pane da quello di un pezzo di formaggio semi stagionato. Certo, mi aiuta la consistenza, la sensazione in bocca di qualcosa che si impasta compattandosi con la mia saliva è differente dalla paccottiglia scivolosa che si attacca alle gengive, ma in termini di sapore non sento nessuna differenza.
Per fortuna, il sapore dei baci di Ginevra si riaccende a memoria quando le sue labbra incontrano le mie. Mi aiuta il naso, che percepisce con chiarezza l’odore del suo rossetto e la nuance del suo profumo… allora sì, mi pare di sentire il sapore della sua lingua mentre mi esplora il palato e cerca la mia. Ma in questo caso è il cervello che elabora e associa; non è una sensazione reale derivante dal gusto.
Ho chiesto a un amico di comprarmi tre bottiglie di vino differenti provenienti da regioni italiane diverse; me le ha lasciate, come da mie istruzioni, ben coperte da una carta scura.
Ora le ho stappate velocemente, senza indugiare sui tappi, che potrebbero fornirmi degli indizi.
Finirò per spendere un patrimonio in vini per fare tutte queste prove, ma non posso rinunciare all’esame e soprattutto non posso non superarlo.
Prendo tre calici da degustazione e, dopo averci versato separatamente uno dei tre vini, li dispongo davanti a me. Devo riuscire a identificarli basandomi solo sul colore, la trasparenza, con l’aiuto degli occhi, insomma.
E poi dovrò affidare tutto all’olfatto.
Il mio incredibile naso, capace di farmi distinguere le più tenui sfumature dei bouquet olfattivi dei tanti vini assaggiati nella mia vita, dovrà guidarmi e indicarmi il nome giusto.
Forse mi illudo. Ho studiato e imparato che i componenti chimici in un vino possono arrivare a cinquecento e le sostanze volatili, odorose, si avvicinano a centocinquanta.
Posso sperare di riconoscerle tutte?
Il primo vino si presenta di un colore intenso, rubino, quasi violaceo; indugio con gli occhi sulla superficie del liquido guardandola dall’alto, poi inclino il bicchiere e osservo la cosiddetta unghia. È compatta. Lo guardo in controluce e vedo che è molto opaco. Passo un dito dietro il bicchiere e la sagoma della mano è interrotta a livello del liquido che appare quasi solido.
La mente va subito ad alcuni dei grandi rossi, forse piemontese o toscano?
Potessi assaggiarlo…
Niente fretta, sarebbe inutile, e cederei allo smarrimento: devo usare il naso.
Faccio roteare il vino nel bicchiere leggermente inclinato due o tre volte per eccitare la parte volatile odorosa e immergo il naso nel bicchiere; forse un po’ di più del solito, in modo poco elegante, ma sono alla ricerca di un’ancora di salvezza e al diavolo la forma.
Si spalanca un’eruzione di odori; sembra di sporgersi su un canalone di frutta rossa matura: la mora erompe per prima, prepotente e per un attimo esclusiva. Chiudo gli occhi per concentrarmi. Più silenzio gli altri sensi e più potenzio quello ciò mi interessa. L’essenza. Ed ecco farsi strada il mirtillo e poi la prugna; un aroma carico, deciso. Nel canalone della frutta immaginato dalla mia mente vedo con il naso una distesa di violette, anche loro finalmente percepibili.
Ho già una mezza idea, ma mi servono conferme.
Mi concentro e, trasformandomi io stesso in impulso nervoso, ordino al mio epitelio olfattivo di ricercare le tracce di un eventuale passaggio in legno. Se la mia prima intuizione fosse giusta, questo vino dovrebbe aver passato diversi mesi nel legno delle botti.
Ed eccoli che arrivano, potenti: gli aromi terziari. Riconosco la vaniglia, per me inconfondibile perché legata al ricordo delle grandi tazze di cioccolata che la nonna preparava per me e il nonno nei pomeriggi che ci vedevano rientrare dalla cantina. A quell’odore mi pare di sentire in bocca la consistenza vellutata e avvolgente di quella merenda fatta di torta alla ricotta con i pinoli, la cioccolata, l’amore.
Poi nella sinfonia distinguo bene la liquirizia, il tabacco, il cuoio. Un piccolo sfumato pizzicore balsamico finale mi fa pensare al mentolo.
Non ho più dubbi: quello che sto assaggiando è un Sagrantino; e se il sentore di macis – ci fosse davvero e non lo immaginassi solo – potrebbe essere… no, non voglio condizionarmi con una risposta affrettata.
Riapro gli occhi.
Ora devo assaggiarlo.
Se voglio fare le cose per bene, all’esame dovrò far finta di degustarlo prima di definirlo.
Con la paura di chi sa che il tentativo verrà frustrato avvicino le labbra al bicchiere, e mentre il mio naso si esalta nel tripudio della seconda ondata, il liquido denso, caldo, scivola in bocca, lasciandomi un senso di terribile vuoto.
Sulla lingua, prima sulla punta e poi sul fondo; quindi sulle gengive inferiori, poi su quelle superiori e infine sul palato: lo spingo in ogni direzione, così come per primo il nonno e poi il maestro mi hanno insegnato.
Ma è tutto inutile; non ricevo nessun gusto, niente stimoli.
Percepisco però che questo vino tende a risultare astringente, un po’ come succede quando succhi un limone e la bocca sembra asciugarsi, sebbene ancora inumidita dal liquido.
Dovrò ricordarmi di fare molto caso a questa sensazione il giorno dell’esame, potrà aiutarmi. Infatti mi dice che ci sono i tannini, tanti; un vino rosso corposo, denso, opaco, dal bouquet fruttato e con sentori di legno. Astringente.
Mi decido a osare. Facile farlo ora, in cucina da solo, ma dovrò saperlo fare anche quel giorno davanti alla commissione.
Credo sia un Sagrantino di Montefalco, giovane di età, nonostante il suo necessario invecchiamento previsto dal disciplinare, e credo sia passato in barrique.
Per me è un Collepiano di Caprai.
Tolgo la carta ed esulto: è proprio lui e ha solo quattro anni.
Posso ancora farcela… con gli altri sensi e i ricordi dell’infanzia posso sperare di riconoscere i vini pur senza riuscire a gustarli.
Mi siedo, quasi mi accascio, sulla sedia e chiudo di nuovo gli occhi. Sento uno strano ronzio nelle orecchie e non so più se sia il rumore sordo del ventilatore che ho dimenticato acceso in salone o un altro artefatto sensoriale, come quelli che ho evocato prima.
Sorrido, dentro di me so che quel fruscio dolce e costante nelle orecchie è la voce del nonno che mi sussurra incoraggiamenti e complimenti a settembre, mentre vendemmio al tramonto la sua vigna; quel filare che ha voluto che facessi tutto da solo. Dopo tante ore, sono stanchissimo, ma lui non mi lascia e mi incoraggia a finire. «Perché – mi dice – se una cosa la desideri e la vuoi davvero, nulla può fermarti, ragazzo mio.»
Ora so che ce la farò.