Le foglie dorate dei platani in ottobre tingono i miei pensieri di un’intensità lisergica. Assorta in un’intima malinconia vengo richiamata dalle grida di un uomo, che avviluppano il mio corpo in un drappo di dolore. Trasalendo scorgo l’immagine di una donna fissa sul cornicione. Nel terrore colgo a malapena i rimandi dei sensi e, incredula, riconosco in lei l’ombra ipnotica di un fedele autoritratto. Fermo immagine.
Dalla sporgenza di quel quarto piano, il suo volto sembra contratto in un ghigno di sprezzo all’ennesimo richiamo del compagno. Quell’individuo, tramandato dall’assuefazione di anni, si consegna alla nostra scena nelle vesti di un estraneo. La sua voce, incapsulata nella trama di una supplica, risuona monotona come l’invocazione ripetuta meccanicamente sull’ultimo grano di un rosario. E mi sovviene ancora, improvviso, lo spettacolo nauseante del suo tradimento: lui con l’altra. Out.
Strattonata dalla corrente della repulsione, lei scosta rapidamente le braccia lunghe ed esili dal muro e con un gesto fermo spinge in avanti le spalle ossute. Si protende nel vuoto con sguardo avido ad assaporare il gusto della gravità. La mia schiena si stacca dalla panchina e resisto appena all’impulso della vertigine. Vorrei parlarle ma il magnetismo delicato delle sue labbra serrate mi trasporta all’orecchio un tenue sussurro: “è andata così”. Fotogramma.
Le sue urla taciute mi feriscono, sento la lama della sua angoscia ben tesa nello stomaco. I movimenti martellanti del suo petto mi agganciano in una palpitazione asfissiante di ricordi spezzati, trascinati alla deriva da gocce di sudore e lacrime. In quel teatro allucinogeno, avverto il suono greve del suo tacco battuto forte sul bordo dell’edificio mentre una scossa inconsapevole muove il mio piede a seguire lo slancio. Lo strido degli spettatori irrompe a mezz’aria a cementare lo scatto. Flash.
Morsa dal pugno dell’inerzia, mastico emozioni dal sapore metallico. Il sangue, inoculato fino tra i denti stretti e tremanti, mi graffia la gola. Provo il progressivo distacco dall’istinto di permanenza, scandito da sparuti gemiti polmonari. Ho freddo. Una sensazione di intorpidimento giunge a smorzare l’assalto della paura. L’oscurità avanza in un graduale stato di soffocamento. Buio.
Con una lenta rotazione del capo, fiero ed erto a mantenere teso il filo che la trattiene in vita, rivolge i suoi occhi a me. Occhi blu, vitrei, tratto di un’esistenza che risiede al di là del presente. La cura di quel bramato presidio terreno finalmente mi soccorre. Respiro. Percepisco il suo abbraccio amorevole, senza tempo. Assicuro la coscienza alla memoria del suo sorriso, unica certezza di trascendente appagamento. Mi tende la mano e, nell’impeto inatteso di un agognato ritorno, mi accolgo. Luce.