Adoravo andare in bicicletta, pedalare, sentire l’aria frizzantina di un lunedì di inizio ottobre sulla fronte.
Era quell’ora dei grigi mattutini.
Le luci delle strade uscivano di scena per lasciare spazio all’arrivo del sole.
Saresti stato presto il mio sole, saresti bastato tu.
Portavo un giacchettino nero leggero a costine, comprato in un negozietto vintage, del quale ripetutamente non ricordavo il nome. Lo tenevo allacciato fino all’ultimo bottone del colletto a coprirmi lì, dove avrei dovuto indossare il foulard ancora una volta dimenticato a casa.
Una gonna blu notte, lunga, di seta svolazzante mi scopriva le gambe, mi piaceva giocarci e constatare, specchiandomi nelle vetrine di via Stroget, che forse anche quella mattina non avevo scelto il look più adatto per la giornata.
Gli stivaletti neri alla caviglia con un tacco quadrato di pochi centimetri mi donavano l’immagine veritiera di una ragazza accesa e determinata.
I capelli neri, lunghi fino al fondoschiena, tagliati tutti pari, raccolti da un elastico lento sulla schiena, profumavano di fascino antico e fiabesco. Così tu mi dicesti qualche mese dopo.
Non lo sapevo ancora, ma, a quanto mi raccontasti più volte, ero già la tua fata.
Mi vedesti in lontananza, arrivare sulla via che stavi percorrendo, dopo aver attraversato un ponte sul Nyhavn.
Quella mattina fosti fortunato. Ero fiera di me, mi ero appena laureata in matematica, mi sentivo libera e non sentivo la fretta di trovare un lavoro. Avevo voglia di mettere da parte il mio atteggiamento stacanovista.
Le cose arrivano quando devono arrivare.
Lo sanno loro, loro conoscono i tempi, i tempi che spesso rincorriamo o che acceleriamo.
I calcoli mi servivano solo per la professione, non nella vita.
Avrei avuto un colloquio nel pomeriggio, ma quello che mi interessava in quel momento era fermarmi in una bakery per un caffè nero bollente ed uno snegle appena sfornato al profumo di cannella.
Legai la bicicletta al palo proprio davanti all’entrata del negozio.
C’era molta confusione quella mattina, la sentivo subdola nella testa. Tra questa confusione, chiusi di fretta il lucchetto e mi rialzai da terra, misi a posto la gonna, mi scostai dagli occhi un ciuffo fastidioso e fu lì che incrociai i tuoi occhi.
Mi dicesti qualche giorno dopo che notasti le mie forme slanciate e i miei movimenti buffi, ricchi di una femminilità genuina, della quale ne sentivi mancanza da tempo.
Salisti sul marciapiede con un tempismo perfetto per cogliere il mio sguardo piacevolmente incuriosito.
Ti sorrisi, le mie labbra si aprirono leggermente morbide e sono sicura che in quel momento le mie pupille si fecero più grandi, quasi a marcare il colore scuro dei miei occhi. Tutto di me era attratto da te.
Mi dicesti tante volte negli anni “Eri bella, banale dirtelo?”
Ed io ti risposi sempre “Continua a dirmelo, sarà sempre come sentirlo per la prima volta. La bellezza non è mai banale. È tale perché non annoia mai, stupisce sempre.”
Avevi 24 anni, qualche anno in meno di me. Mi facevi tenerezza con quella camicia bianca, una giacchettina sportiva grigio fumo, il tuo zaino da aspirante ricercatore, il capello corto castano scuro ben curato ed una montatura nera ad incorniciare i tuoi occhi azzurri come il mare di casa mia, nel trapanese. Tanto mi mancava, ma guardandoti fu subito casa.
Fosti timido, ma di quella timidezza debole, demolita senza troppe resistenze, dalla voglia di fare colazione con me.
Così ci salutammo come se ci conoscessimo da sempre.
Fu diretto, magnetico, freddo; ma di quel freddo che scotta e lascia il segno.
“Ciao”
“Ciao”
*
Ci abbracciammo forte.
Desideravo che il mio corpo si fondesse con il tuo. Volevo rinvigorire le mie membra, impregnarle di ricordi, riempire le viscere di memoria, quella memoria che presto mi avrebbe salutata.
Pancia, seno e mani pulsavano di paura, di smarrimento e confusione. Non sapevo se fossero i primi sintomi dell’Alzheimer o fosse la mia lucidità nel sapere verso cosa andassi incontro.
Mai mi sarei potuta dimenticare di te. Quella sera, a fine cena, uno seduto di fronte all’altro, ti dissi accesa e determinata “Quando avrò uno sguardo perso, sii felice, perché persa sarò alla ricerca di te e tu sarai lì. Il mio cuore lo saprà.”
Ti commuovesti, le tue guance si riempirono di passione e mi accarezzasti con lentezza, disegnando con il movimento dei tuoi occhi i miei lineamenti. Non sapevi da dove cominciare ad amarmi, seppur avessi cominciato anni prima.
Dal collo, poi le spalle e infine alla schiena. Facemmo l’amore in cucina, lo facemmo di nuovo.
Sempre nuovo, sempre puro, sempre nostro.
Poi però nelle notti a venire mi agitavo, tiravo pugni nel vuoto, seguiva l’oblio totale e mi risvegliavo tra le tue carezze e le tue parole dal profumo di pan dolce appena sfornato.
“Fabio?”
“Sì sono io, cara mia Ingrid, va tutto bene. Andrà tutto bene”
Non te lo dissi mai, ma quando smettevi di parlarmi trapelava spesso struggimento. Sentivo che anche per te questa prova era più forte di una pugnalata al petto. La mia solitudine era intensa quanto la tua, seppur diversa.
*
Ogni mattina pedalavo una mezz’ora nella campagna intorno alla nostra casa al mare. Sempre lo stesso giro e tu ogni 10 minuti mi chiamavi: “Come va? Hai visto la bellezza dei girasoli?”
Siamo tornati a Erice, sono a casa. Me lo devo ricordare.
Qualche mese dopo, iniziai a pedalare 15 minuti al giorno e tu venivi con me.
“Ho 65 anni?” – prove generali per rimanere sincronizzata nel tempo presente.
Sorridevi di tenerezza, ti fermavi in mezzo al campo dietro di me, venivi a contenere nelle tue mani il mio viso e mi ricordavi “No amore 62! Non pedalare così veloce”.
Ridevo e piangevo, piangevo e ridevo. I capelli sciolti al vento nascondevano le lacrime.
Lacrime di gioia per avere avuto il privilegio di essere al tuo fianco, per aver avuto il privilegio che tu mi tenessi al tuo fianco.
“Abbracciami ancora. Ho ricordi sfumati, alcuni intatti, ma molti dimenticati.”
“Non dimenticherai mica che amo viaggiare con te? Non dimenticherai la nostra Copenaghen?”
Sorrido e tu sembri felice.
Concludiamo con una risata condita di malinconia e un pizzico di ironia, cullati dal divano a dondolo in giardino.
Sono a Erice e me lo ricordo.
*
Fabio mi sta simpatico, mi aiuta a scendere dal letto, mi tiene le mani. Le sue sono calde, morbide e curate.
Gioco con i miei capelli lunghi, crespi e grigi. Spesso me li ritrovo raccolti, allora mi innervosisco e urlo “Chi è stato? No no, non toccatemi!”
Fabio non fa nulla, ma da lontano mi calma, sorridendomi dalla cucina con un grembiule che sa di tante ricette.
Sta cucinando con un paio di occhiali dalla montatura nera, ma purtroppo io non posso trattenermi devo andare. Ho un importante colloquio di lavoro, devo fare in fretta.
Ma dove sono? Ho freddo. Lui se ne accorge, mi copre con un foulard azzurro come i suoi occhi.
Sono pronta per salire sulla mia bicicletta e andare. Poggio l’avambraccio sul bracciolo del divano per alzarmi, ma mi sento confusa. Non riesco ad alzarmi, mi gira la testa, è pesante. Sarà per la chioma folta o per qualcos’altro? Mi manca l’aria. Mi risiedo, non pongo resistenza.
Noto la tavola di fronte a me apparecchiata, una luce di primavera entra dal balcone ed illumina una tovaglia bianca di lino, che sa di storie e racconti.
Il servizio è ricercato, mi accorgo che è apparecchiato per tre. Io, quell’uomo e…
“Fabio vieni qui.”
“Arrivo subito.” Si asciuga le mani sul grembiule, lascia il tagliere ancora da lavare vicino al lavandino e controlla il forno.
Nel frattempo vedo dei piccoli foglietti gialli (hanno un nome ma non lo ricordo proprio) appiccicati sul tavolino di vetro davanti a me.
Mamma ti voglio bene!
Mamma la tua bici è al sicuro, uscendo dalla porta del soggiorno sulla destra di fronte al box…
Mamma oggi è il tuo compleanno!
Non sento più il bisogno di giocare con i miei capelli, sento nella pancia la stessa sensazione di quando passavo a salutare la sirenetta di Eriksen, sento il profumo di cannella uscire dalla bakery, sento le onde del mare e mia mamma che mi aspetta con gli arancini appena fritti.
Fabio si siede di fianco a me, tento di guardarlo dritta negli occhi spendendo tutte le mie energie per stare dritta.
Sto per cadere indietro sdraiata, lui mi prende.
Lo guardo, vedo offuscato ma le intuizioni non lo sono mai.
Provo a scandire “Mi sto innamorando di te, come mai mi sia capitato prima”.
Tu sembri felice e mi prometti che presto mi porterai in un posto a me caro.
(Dove sono?) “Sei a Erice.”
*
Paesaggi nordici, colori scuri e magnetici.
Percepivo qualcosa di famigliare, seppur fosse una meta insolita.
Non aprii bocca e tu, cercando i miei occhi, mi dicesti “Eccoci, te lo avevo promesso. Continua ad essere il tuo posto preferito. Da 60 anni.”
Avvicinai una mano al cuore, percepii un freddo piacevolmente tagliente.
Non capivo di cosa stessi parlando, in realtà non sapevo chi fosse quell’uomo.
Lui continuò ad osservarmi, seppur io evitassi di incrociare i suoi occhi azzurri “Ingrid, cosa stai guardando?”
Non capivo perché mi chiamasse con quel nome. Nel dubbio non distolsi lo sguardo da quel punto fermo sul canale d’acqua di fronte a me e tentai di muovere le labbra per quel poco indispensabile ad essere decifrata “Difficile risponderti”.
“Puoi provarci, che dici?” insistette con dolcezza.
Feci un respiro un po’ più lungo rispetto ai precedenti, ma neanche troppo. Ero affaticata e presa da un improvviso sonno.
Una ragazza passò in bici, che aria di libertà pensai.
Decisa a custodire gelosamente quel momento di mia solitudine, ci misi poco a scegliere di non proseguire con la conversazione.
Non ti conoscevo ancora, ma sentivo che potevo essere me stessa con te. Non avevo nulla da dimostrarti, non eravamo un problema di matematica da risolvere. Sembravamo già l’uno la soluzione per l’altro.
Eravamo su una panchina, mi tenevi appoggiata a te. Pensavo che non era un posto di mare e tu “No amore, siamo al Churchill Park”.
Girai lentamente la testa verso di lui, più di così non riuscivo “Amore?”
Ti chiesi con lo sguardo se potessi sdraiarmi per terra in quel prato.
Mi sfiorasti il naso con il tuo e facesti sì con la testa.
Mi sdraiasti come un neonato nella culla, mi rigirai su me stessa massaggiandomi la testa, i miei capelli grigi si mescolarono al verde tutto attorno.
Speravo di non crearti dispiacere, nell’essermi allontanata da te ancora sulla panchina, ma presto mi accorsi con la coda dell’occhio che non ce ne sarebbe stato pericolo. Prendesti e ti sdraiasti di fianco a me con cura, quasi a non voler sgualcire i fili d’erba umidi.
Mi capisti con una prontezza e delicatezza, che mi lasciò stupita. A bocca aperta. Tu lo notasti e con un fazzoletto mi pulisti il mento.
Quell’uomo si comportava come se mi conoscesse da tempo e mi amasse da sempre.
Ti ringraziai, allungando a fatica una mano sulla tua schiena. Mi sussurrasti all’orecchio “Ciao fata”.
Mi baciasti sulla guancia, sentii un brivido sulla mia schiena, ma rimasi immobile.
Coccolati da un prato rigoglioso, rimanemmo lì come bambini.
Era fine settembre, ottobre era alle porte mi dicesti. Ci coprimmo con le nostre stesse giacche, la mia nera e la tua grigia.
Il tempo per me sembrava essersi fermato agli albori, mentre per te forse proseguiva stagione dopo stagione.
Stemmo lì, nel mio tempo e tu nel tuo, eppure ti sentivo lì con me. Forse mi sbagliavo, era il nostro tempo.
Ti amai di nuovo, ancora. Tu alzasti un po’ la testa, cercasti e catturasti il mio sguardo, riscesi con il collo e ti avvicinasti al mio orecchio e mi sussurrasti “Sei bella, banale dirtelo?” ed io intimorita e lucida come mai prima risposi “Continua a dirmelo, sarà sempre come sentirlo per la prima volta. La bellezza non è mai banale. È tale perché non annoia mai, stupisce sempre.”
“Ciao”, tu dicesti felice.
“Ciao”, dissi io stanca, molto stanca. Ma grazie a te ancora viva, innamorata.