Il cosmo è tutto nella mia stanza. Le partiture elettroniche sprigionate da rudimentali sintetizzatori dilatano all’infinito spazi inesplorati e collisioni di mondi e stelle che creano altre stelle ed altri mondi. Esseri viventi semplici che a poco a poco diventano complessi, si fanno una guerra spietata per la sopravvivenza e poi vengono spazzati via da nuove collisioni interstellari. Le percussioni risuonano schizofreniche impattando sul mio nervo acustico. Rievocano vulcani in ebollizione e il ridisegnamento della crosta di un pianeta simile a una Terra in embrione, ancora orfano del mistero della vita. Proprio quando penso a tutto questo, preparandomi un robusto spinello nella triste solitudine del mio negozio di dischi – “L’astronave del Dottor Klavan: musica per cosmonauti ed esploratori dei sensi”, Fulton Street 217, Houston, Texas – con in sottofondo Zeit dei Tangerine Dream, un suono ben più terrestre mi distrae dalle mie divagazioni spaziali. E’ il campanello. Suona una, due, tre volte. Tre stilettate sul mio talamo encefalico. Più fastidioso di una sveglia. Più intransigente di un esattore delle tasse. Eppure sulla porta c’è il classico cartello con scritto “Vengo subito”, sotto il quale alcuni buontemponi hanno anche scritto: “Allora godi poco”. Ma ci sta.
Il campanello continua a trillare mentre sento qualcuno che inizia ad armeggiare con la serratura. Non posso pensare che siano dei ladri. I pezzi pregiati della mia collezione ormai li ho venduti praticamente tutti, la cassa langue e l’attività è ormai prossima alla chiusura. Nell’anno del signore 2015, le piattaforme di streaming e la pirateria hanno surclassato l’ascolto della musica in formato fisico e, salvo qualche nostalgico collezionista, è un business ormai agonizzante e poco redditizio. Per me poi, che sono specializzato in Kosmische Musik, è una battaglia persa in partenza. Tangerine Dream, Amon Duul, Popol Vuh, Ash Ra Tempel, ma chi cazzo li ascolta più ormai. I conoscitori di musica come me sono ormai animali in via d’estinzione.
Da dietro la vetrina con la tendina abbassata intravedo due soggetti vestiti di nero, con occhiali scuri, giacca e cravatta. Evidentemente sanno che sono qui, perciò mi sbrigo ad aprire.
Uno dei due, da dietro le spesse lenti degli occhiali da sole mi fa: “E’ lei Herbert Langley, detto Doctor Klavan? Musicofilo e ufologo?”. Ha una voce metallica e robotica, gelida e atonale. Di riflesso annuisco meccanicamente ed entrambi, in sincronia, mi sbattono davanti agli occhi i loro tesserini. Sono due agenti della “USSF – United States Space Force” e si chiamano Lennon e McCartney. Si spiegano rapidamente, entrambi con la stessa voce fredda e distaccata. Mi parlano di contatti con forme di vita extraterrestre e di messaggi provenienti dallo spazio profondo. Non si dilungano in dettagli ma mi intimano di seguirli. Il loro tono non ammette repliche. E’ chiaro che dovrò seguirli.
Tutt’altro che attirato dall’idea di far incazzare quei due soggetti usciti dritti dritti da un film di serie Z acconsento e partiamo su una Lincoln nera dai vetri oscurati. Il cadenzato ritmo del motore, in un altro contesto, mi avrebbe conciliato il sonno ma la situazione è talmente strana da aver azzerato qualsiasi velleità di dormire. In quasi sessant’anni di orgogliosa vita di esploratore dell’umana percezione non mi era mai capitato niente del genere. I due individui, chiaramente due Men in Black, sono seduti davanti e non spiccicano parola per tutto il viaggio. Provo a distrarmi con un po’ di musica dal mio smartphone ma uno dei due, credo Lennon, come se mi avesse letto nel pensiero, accende la radio. Dall’impianto audio dell’auto – un Pioneer di ottima fattura – escono fuori le prime note di Satisfaction dei Rolling Stones. Quel riff di chitarra sfacciato e prepotente, dal sapore blues, mi rimanda ad anni mai vissuti e mi instilla dentro un’insana voglia di ballare e di dimenarmi in preda a un invasamento estatico. Tamburello le mani sulle cosce e il Men in Black che è alla guida, McCartney, mi dice, col suo tono metallico standard: “Per me tra Beatles e Rolling Stones non c’è partita. Quei quattro damerini non valgono un’unghia di Jagger e Richards”. Incassa la silenziosa approvazione del collega e non concede più altro spazio alla parola.
Io gli vorrei dire che i Beatles sono tutt’altro che quattro damerini, ma sotto sotto anche a me stanno sul cazzo e preferisco godermi in santa pace il rombo del motore e le sguaiate evoluzioni vocali di Jagger.
Dopo circa quattro ore di viaggio, la metà delle quali su una lingua d’asfalto desolata che divide due lembi di deserto, giungiamo in un edificio di chiara appartenenza militare, strettamente sorvegliato da soldati armati e corredato da filo spinato e avvertimenti altamente minacciosi. Avete presente l’Area 51? Una cosa del genere.
Mi sembra di trovarmi in un sogno, o forse in un incubo. I miei gentili accompagnatori, al di là dell’aspetto e dei modi alquanto folkloristici, non mi sembrano però ostili. Mi scortano fino all’interno della base, anonima e retrofuturistica, proprio come loro. Un viavai di militari che corrono da una parte all’altra eseguendo ordini sparati ad alto volume da altoparlanti appostati come cecchini ai lati di grandi sale. Nell’aria un candore lattiginoso e asettico che sa di disinfettante e atemporalità.
Non faccio in tempo a guardarmi intorno che mi si presenta un militare che, a giudicare dalle stellette sul petto, dovrebbe essere un pezzo grosso. Avrà sì e no cinquant’anni, fisico asciutto, capelli brizzolati a spazzola e un viso totalmente inespressivo su cui campeggia un sorriso forzato. È il Generale Clint Westwood, maestro di cerimonie di quest’accozzaglia di pulsantoni, schermi giganti e soldatini impazziti.
“Signor Langley, lei è stato convocato qui in quanto, nostro malgrado, è uno dei principali esperti viventi di avvistamenti di cosiddetti oggetti volanti non identificati, nonché di musica. Inoltre le sue attività di agitatore antigovernativo, esercitate mediante la autopubblicazione sotto il nome di Doctor Klavan di saggi strampalati in cui rilegge arbitrariamente l’ultimo secolo di storia americana non sono a noi ignote. Tuttavia saremo ben disposti a tollerare ogni sua stranezza in cambio di un piccolo aiuto. Deve sapere che la questione di cui sto per parlarle può addirittura compromettere il prosieguo della vita umana sul pianeta Terra”.
Non faccio in tempo a proferire parola che Westwood continua, con fare incalzante e un tono di voce che tradisce ansia e impazienza al tempo stesso.
“Anni fa, nell’ambito dell’operazione “Music from Outer Space”, abbiamo inviato una sonda con una compilation di musica terrestre oltre i confini del sistema solare. L’abbiamo fatto per cercare forme di vita intelligente che potessero interfacciarsi con noi seguendo il linguaggio universale della musica. Nella compilation c’era un po’ di tutto, da Jingle Bells ai canti nuziali delle Isole Salomone, fino a Frank Sinatra e David Bowie”.
Quella strana accozzaglia di sonorità mi provoca immediatamente brividi e divagazioni interstellari. Immagino alieni grigi, dagli occhi a mandorla e dal cervello ipersviluppato acquistare l’ultimo modello di Iphone al centro commerciale tra decorazioni natalizie, bastoncini di zucchero e biscotti di marzapane a forma di marziano. Oppure penso a The Voice, che con uno smoking pieno di lustrini, si esibisce su qualche pianeta sconosciuto davanti a una platea estasiata di pleiadiani ben vestiti.
A distrarmi dalle mie solite divagazioni musicali è ancora Westwood: “Pochi giorni fa siamo entrati in contatto con una razza aliena proveniente dal pianeta Altair IV, distante circa 20 anni luce dalla Terra. Si trovavano in esplorazione alla periferia più estrema del sistema solare e si sono imbattuti nella nostra playlist. Ed è proprio qui che nasce il nostro problema. Nella compilation c’è anche il brano di David Bowie Space Oddity, che grossomodo parla di un astronauta che si perde da qualche parte nello spazio. In parole povere, gli Altairiani, depositari di un sapere ultraevoluto e di un arsenale in grado di ridurre la Terra a un ammasso di asteroidi, non amano le metafore e non solo sono convinti che Bowie sia uno di loro ma che, addirittura, sia nostro prigioniero. Decifrando senza ostacoli di sorta la nostra lingua, ci hanno detto che o gli consegniamo sano e salvo Bowie o ci distruggeranno. Per questo riteniamo che solo lui possa chiarire questa querelle interplanetaria, spiegando loro che si tratta di un enorme equivoco”.
“E voi cosa pensate di fare? E soprattutto, cosa dovrei fare io?”
“Nel dubbio, abbiamo già rapito Bowie, che però è riluttante a collaborare. Dice che questa situazione è assurda e che vuole prima parlarne col suo manager e col suo pool di avvocati. Ha un album in uscita dopo quasi cinque anni e il suo primo singolo ha già scalato le classifiche. Inoltre le nostre divise lo rendono nervoso e il cibo che gli serviamo gli fa schifo. Per questo abbiamo pensato che una persona come lei, Langley, che mastica UFO e musica, potrebbe convincerlo a partecipare a questa pantomima in rappresentanza della Terra tutta. Veda lei come impostare il tutto, se solleticargli l’ego o muoverlo a compassione. In ogni caso è imperativo che ci riesca, altrimenti siamo tutti fottuti!”.
Neanche mezz’ora dopo mi trovo da solo con lui, David Robert Jones, in arte David Bowie. Rockstar. Divo. Leggenda. Mito.
Dopo ripetute genuflessioni verbali, sperticandomi in lodi sincere e appassionate per la sua Arte, cerco di illustrargli il mio punto di vista. Gli faccio capire che non è uno scherzo e che esistono davvero popolazioni aliene in grado di distruggere il pianeta in uno schiocco di dita. Gli parlo di scala di Kardashev e di relatività. Di civiltà sconosciute e complotti governativi. Non gliene frega niente. A quel punto mi gioco l’ultima carta. Sottolineo ripetutamente l’importanza della sua attività di mediazione e, facendo leva sul suo gigantesco ego, gli offro la carta definitiva: “Pensaci David, saresti il primo artista terrestre ad esibirsi davanti a un pubblico di alieni! E così potremo finalmente far capire che non sei un prigioniero ma, con il dovuto rispetto, semplicemente un cantante. Solo così potremo evitare di essere trasformati in fluttuante spazzatura interstellare!”.
Il suo sguardo, reso asimmetrico dall’anisocorìa, è ora magneticamente puntato su di me.
“Se il pianeta ha bisogno di me non posso certo tirarmi indietro” – fa lui, a metà tra il tronfio e l’emozionato – “come vogliamo procedere Sig.Langley? Mi esibisco davanti agli alieni tipo al Super Bowl? E con quali costumi? E la scaletta? E la band?”.
Dagli altoparlanti arriva, fredda e distaccata, la risposta di Westwood, che in segreto stava ascoltando la conversazione: “A questo penseremo noi Sig. Bowie. Abbiamo recuperato un suo abito di scena, quello di Ziggy Stardust l’alieno, la sua incarnazione artistica più adatta al contesto. Inoltre per quanto riguarda la band siamo venuti in possesso, a seguito di pagamento delle opportune royalties, di tutte le sue registrazioni strumentali, sulla quali potrà cantare tranquillamente senza bisogno di musicisti. L’ora X scatterà nel deserto del Nevada, non appena il tutto sarà pronto. Ci muoveremo con mezzi aerei e in loco avremo già alcune nostre divisioni di stanza nel deserto, al riparo da occhi indiscreti. I nostri amici alieni ci hanno dato, generosamente, 48 ore terrestri che, nella loro idea di tempo, corrispondono a circa 10 minuti. Per la scaletta, l’artista è lei e ha carta bianca. Può farsi aiutare dal Sig. Langley, se lo riterrà opportuno”.
Faccio fatica a credere che fino a poche ore prima ero intento a fumarmi una canna nel mio semifallito negozio di Houston e ora sono con David Bowie in una base dell’esercito americano a organizzare un concerto per degli alieni che minacciano di distruggerci. Per quanto riguarda la scaletta non è stato difficile destreggiarsi fra i brani più fantascientifici del musicista inglese. Da Moonage Daydream a Hello Spaceboy, passando per Life on Mars? e Space Oddity, sino al gran finale con Ziggy Stardust e Starman.
Le ore che ci separano dal grande evento scorrono veloci e siamo entrambi in preda a una trance elettrica. Arriviamo sul luogo concordato a bordo di un elicottero, assieme a Westwood, McCartney e Lennon.
Il palco, allestito in grande stile, è in mezzo al deserto. Luci, maxischermi, effetti speciali. Tutto è in ordine. Il cielo terso e un clima mite fanno da corollario a questa esperienza degna di un film di Spielberg.
Atterriamo proprio sul palco con David già vestito da Ziggy. Pantalone e blusa a righe rosse e argentee, spalline e colletto dorati, stivali con la zeppa anch’essi rossi. Una lieve patina di cerone e rossetto a rendere il tutto ancora più surreale. Di colpo mi ritrovo catapultato in quegli anni ’70 che tanto amo.
Nel frattempo, il nostro “pubblico” non tarda a presentarsi. Dal cielo, senza alcun preavviso, si materializza una cattedrale di luci di forma piramidale, anello di congiunzione tra antichità ignote e futuri altrettanto inconoscibili. E’ stranamente silenziosa e rimane sospesa, immobile, sul palco. Tutti i nostri sguardi sono rivolti al cielo, rapiti nell’estasi del nostro primo, vero contatto con un’entità extraterrestre.
Il potente impianto audio installato dai soldati di Westwood svolge già il suo dovere, attaccando con le note strumentali di V2-Schneider, tanto per riscaldare l’atmosfera e permettere a Bowie di acclimatarsi al suo nuovo palco a cavallo tra terra e cielo. Il sax sghembo che introduce il pezzo, dedicato a Florian Schneider dei Kraftwerk, è straniante e non molti sanno che l’attacco è volutamente eseguito sulla nota sbagliata. Del resto qui tutto sembra sbagliato. Una commedia degli equivoci che è a un passo dal trasformarsi in tragedia.
Bowie tira fuori la sua voce baritonale dopo l’arpeggio ipnotico di New Killer Star e il concerto finalmente ha inizio. Non avrei mai pensato di poter assistere a una cosa del genere, nemmeno nella più delirante delle mie fantasie cosmo-musicologiche. Davanti ai miei occhi c’è David Bowie, non più giovanissimo ma in gran forma, che sta cantando nel deserto per una platea di alieni intenzionati a distruggere la Terra.
Il concerto prosegue per un’ora abbondante senza soste o momenti morti – hai visto mai che gli alieni si incazzano e ci distruggono tutti perché non capiscono l’utilità dei bis? – ma poi, a un paio di pezzi dalla fine, Bowie si ferma. Rivolge le braccia al cielo a mo’ di preghiera e finalmente pensiamo che sia in procinto di rivelare agli extraterrestri il grande malinteso all’origine di tutto questo casino cosmico. Invece accade l’inaspettato. “Io sono uno di voi. Sono naufragato per errore sulla Terra e questa meravigliosa popolazione mi ha accolto, non mi ha mai fatto prigioniero. Ora riprendetemi con voi e abbandonate ogni proposito bellicoso nei confronti di questa razza imperfetta, arretrata, ma dal gran cuore!”.
Da parte degli alieni nessuna risposta. Anche le mie orecchie non odono nulla, a parte l’imbarazzo quasi corporeo per la grottesca uscita di Bowie e il soffio asmatico di una lieve brezza che riesce solo a sollevare qualche granello di sabbia. Bowie, terminata la sua invocazione – molto, molto naif – ricomincia fortunatamente a fare ciò che lo ha reso celebre in tutto il mondo e non solo: cantare. Prosegue quindi col gran finale, la doppietta Ziggy Stardust/Starman.
David accusa la stanchezza; il trucco comincia a colargli per il sudore e la tensione. Attacca con Starman, con quel giro di chitarra riconoscibile anche su Alpha Centauri e l’andatura vagamente country. Lo stile cadenzato e spensierato delle strofe si arresta nel ritornello corale che traccia un arcobaleno cosmico che affratellerebbe palestinesi e israeliani, figuriamoci terrestri e altairiani o come cazzo si chiamano questi. Al momento dell’ultimo ritornello succede però l’incredibile. L’astronave inizia a proiettare una luce che investe in pieno David che, mentre è impegnato nel canto, inizia lentamente a distaccarsi da terra. Le zeppe dei suoi improponibili stivali hanno perso il contatto col suolo mentre l’uomo delle stelle continua a cantare, rapito dalla sua stessa arte, dall’eccezionalità di quel momento e, dulcis in fundo, dagli alieni stessi. Il raggio traente degli Altairiani fa fluttuare Bowie a mezz’aria ma lui continua a galleggiare danzando, incurante di quanto gli sta succedendo. Davanti a nostri occhi si palesa una scena dal debordante potere immaginifico: Bowie sta lasciando la Terra per unirsi a un popolo alieno. L’ultimo colpo di scena di un genio, realizzato con l’involontaria collaborazione di una non tanto amichevole combriccola di extraterrestri.
Bowie ci rivolge un ultimo, furbo, occhiolino dalla sua pupilla permanentemente dilatata per poi diventare un tutt’uno con l’astronave. Quest’ultima poi, in una sorta di illusione ottica che faccio fatica a definire a parole, scompare improvvisamente per immergersi in uno spazio-tempo a noi sconosciuto. In sottofondo, la coda strumentale di Starman sfuma lasciandoci rapiti e attoniti ma con la certezza però che il pianeta sia salvo.
Rivolgo uno sguardo interlocutorio a Westwood e gli dico: “Secondo voi tornerà?”
Il Generale, oggettivamente provato dal turbine di eventi consumatisi nelle ultime ore, non ha neanche la forza di rispondere e si limita a scrollare le spalle.
Insisto: “Ora come farete per giustificarne la scomparsa?”
“Come abbiamo sempre fatto. Li facciamo morire. Hai presente Elvis? Jim Morrison? Mica sono morti davvero. Li abbiamo solo fatti sparire resettandogli il cervello. Troppa influenza sulle masse”.
“Stai scherzando? E come ci siete riusciti?”
“Amico mio, abbiamo i nostri metodi. Dopotutto, siamo riusciti a far credere al mondo intero di essere stati sulla Luna nel ’69, figuriamoci se non riusciamo a giustificare la morte di David Bowie per qualche malattia, incidente o roba simile. Tu comunque non preoccuparti. Non ti faremo niente. Il tuo contributo è stato troppo prezioso per farti scomparire nel nulla. La Nazione ti è grata, Doctor Klavan. E poi, chi mai potrebbe credere a una storia del genere?”
Westwood ha ragione. Nessuno crederebbe alla storia dell’ultimo concerto di David Bowie, la storia di un concerto che salvò la Terra e di una leggenda troppo grande per rimanere, con noi mortali, su questo piccolo e incasinato pianeta.