L’elefante di Sant’Ilario

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Dal balcone di foratini e cemento al piano intermedio di una palazzina ai margini di Sant’Ilario dello Ionio, Giuseppe vide avvicinarsi i camion del circo. Si stavano fermando, come ogni estate, nello slargo sterrato lungo la Statale 106 che costeggiava una pineta e, poco oltre, il mare… di Myriam Pettinato

Dal balcone di foratini e cemento al piano intermedio di una palazzina ai margini di Sant’Ilario dello Ionio, Giuseppe vide avvicinarsi i camion del circo. Si stavano fermando, come ogni estate, nello slargo sterrato lungo la Statale 106 che costeggiava una pineta e, poco oltre, il mare.
Avevano appena finito di pranzare e lui stava affacciato con suo padre che fumava una sigaretta, entrambi in costume e senza maglietta.
“Stavolta mi ci porti al circo?”
“A fare che? Che ci devi andare a fare?”
“A vedere gli animali. Ho visto i manifesti… Hai visto i manifesti? CIRCO AMBRA ORFEI, con tutte le foto dei cavalli col pennacchio, le tigri e l’elefante”. Agitava le braccia abbronzate e i palmi delle mani bianchi per imitare la grandiosità dello spettacolo annunciato dai manifesti enormi e pieni di grinze incollati un po’ dappertutto in paese.
“Ma tu lo sai che quelli sono carcerati, eh? Per fare gli spettacoli, prima li catturano dalla savana o dalla giungla dove vivevano liberi e felici, e poi per imparargli gli spettacoli li picchiano con la frusta.” Gettò il mozzicone facendolo volare lontano con la pressione dell’indice contro il pollice. Giuseppe guardava più o meno nella stessa direzione, riflettendo su quelle parole con un’espressione dubbiosa.
“Allora gli animali del circo sono com’a me. Pure io sono libero e felice tutta l’estate, ma poi mi chiudete a scuola con la maestra Teresa che mi dà le bacchettate…”
“Ma falla finita, va’. Vuoi rimanere ignorante com’a me?”
“È solo una scusa. Che t’importa a te degli animali? Ogni sei gennaio tu ammazzi il maiale. Quello strilla, strilla, strilla mentre gli esce tutto il sangue, e tu stai là ad aspettare che muore, e poi mi mettete pure a girare il mestolo nella pentola con il sangue e cioccolato… Che t’importa degli animali carcerati?”
Il padre gli prese il naso con le dita che puzzavano come un posacenere e gli disse che il porco nasce per essere ammazzato. Poi gli fece una promessa:
“Quando diventiamo ricchi, ti porto a vederli nella savana, gli animali. Ce ne andiamo in Africa!”
“E come ci diventi ricco a fare il calzolaio? Tu mi vuoi sfottere, è solo che non mi vuoi portare al circo, come l’anno scorso.”
“Sei proprio uno scassaminchia com’a tua madre, tu. Io gioco sempre la schedina, prima o poi la devo vincere, no?”

Quel pomeriggio, non appena tutti si furono assopiti per il gran caldo, chi sul divano, chi sul letto, Giuseppe sgusciò dalla casa con le persiane abbassate e prese la bicicletta per andare a guardare il circo da vicino. Stavano ancora montando il tendone e non riusciva a vedere gli animali. Forse erano ancora chiusi nei camion telonati. Si rimise in sella e svoltò verso il sottopassaggio che portava al mare. Rallentò aiutandosi con i piedi nudi per vedere se nella discarica sul ciglio della discesa, in mezzo ai rovi e alle canne con cui aveva costruito la sua capanna sulla spiaggia, riusciva a trovare qualcos’altro di utile per arredarla. Per il momento aveva recuperato un tavolino da bar, una sdraio, un televisore quindici pollici che sembrava nuovo, una macchinina di plastica senza una ruota, due cassette della frutta e un lampadario. Non appena avesse finito, con la scusa di portarci gli amici avrebbe invitato anche Carmen, la sua compagna di classe. Ma in realtà era indeciso se portarci lei oppure Rosanna che era più simpatica e, come diceva la maestra, era un asino come lui e anche se prendeva un sacco di bacchettate non piangeva. Alle quattro in punto e non prima, come si raccomandava la mamma, fece il bagno e poi inforcò di nuovo la bici per raggiungere gli altri sul lungomare, dove giocavano a calcio e mangiavano il gelato o bevevano la Coca-Cola al Bar Stella Rossa, oppure al Delfino Blu.
Non aveva più pensato al circo e quando ripassò di là ritornando a casa verso sera, vide il tendone a strisce e la scritta CIRCO illuminata con le lampadine colorate. Visto che suo padre non voleva portarcelo, avrebbe provato con la mamma, o con la nonna. Poteva promettere di aiutarle a fare la salsa di pomodoro senza lamentarsi, o di non dire più le parolacce. Invece scoprì che nessuno voleva fargli quel favore, nonostante avesse preso svariati tagliandi sconto che la macchina del circo con l’altoparlante lanciava in aria passando per le strade.
Un giorno, tornando dal mare per il pranzo, si avvicinò fino al tendone. Il sole picchiava in testa e le spalle gli bruciavano come se fosse stato maggio. Aveva dovuto persino mettere gli zoccoli perché su quello spiazzo era come camminare sui carboni ardenti, come faceva Giucas Casella in televisione. Non riusciva a vedere niente, il circo sembrava deserto. Trovò un’apertura fissata con una corda e riuscì a scostare i due lembi di plastica che per il calore emanavano un odore dolciastro, quasi buono. Dovette soffocare un urlo quando si appoggiò per sbaglio alla struttura tubolare in metallo: il ferro arroventato dal sole gli aveva lasciato un segno rosso sul ginocchio, ci soffiò sopra e poi si allontanò per scoprire dove tenessero nascosti le tigri e gli elefanti. Vide che i cavalli erano quasi liberi lì intorno e trovò anche la gabbia con i lama, ma degli animali della savana e della giungla non c’era traccia.
La mamma aveva preparato il minestrone. Come ogni volta, sia Giuseppe che suo padre si lamentarono che faceva troppo caldo per mangiare minestra a mezzogiorno, e lei rispondeva che dovevano dirglielo all’orto di fare le zucchine con i fiori, i pomodori, i fagiolini e i piselli a dicembre invece che ad agosto. E se il bambino replicava che almeno poteva cucinarlo per cena, quando era più fresco, lei rispondeva che non era la sua serva e cucinava quello che voleva, quando voleva, e chiudeva il discorso dicendo di stare zitto e di pensare a mangiare. Così fu, e nel silenzio che risuonava dappertutto dopo che ebbero spento il televisore, quando si udivano solo il ronzio delle mosche e il frinire delle cicale sugli alberi, Giuseppe sentì forte e chiaro il barrito dell’elefante. Si staccò il tovagliolo di carta che si era incollato al braccio e si affacciò dal balcone, dove il padre era già uscito a fumare, e tese l’orecchio.
“L’hai sentito, Giuse’? Quello sta morendo di caldo là dentro, e gli stronzi non lo fanno uscire perché la gente deve pagare se vuole vedere gli animali feroci. A quest’ora dev’essere come la serra dei pachini di nonno Peppe, ma quelli non sono pomodori”.
“Ma perché i carabinieri non li arrestano?” Giuseppe aveva aggrottato la fronte e gli occhi color nocciola erano serrati nelle ciglia nere e folte da femmina, per la luce accecante che riverberava dal sole ai campi aridi e mezzo bruciati tutt’intorno, e perché si sforzava di capire, ma non ci riusciva. Il circo era un lavoro, e non si arresta la gente che fa il suo lavoro, gli spiegò suo padre.
Alle tre e mezza riprese la bici per andare nella sua capanna sulla spiaggia. Guardò di sfuggita il circo: i bordi del tendone e di tutti i teli blu dei camion parcheggiati tremolavano come se ci fosse dell’acqua sospesa in aria a bagnarli. Giuseppe passò oltre e sfrecciò per arrivare subito a mare e per sentire l’aria sulla pelle. Appena arrivò nel punto più alto della spiaggia, nella striscia polverosa tra la pineta e la sabbia bianca, mollò la bici, che cadde con un rumore di ferraglia, e corse verso l’ombra che scendeva dalle fronde secche del tetto. Il mare era talmente calmo che lo sciabordio delle onde si sentiva appena e la linea dell’orizzonte tagliava a metà quei due blu di acqua e di aria.
Stava sistemando l’asciugamano sulla sdraio quando gli sembrò di vedere qualcosa in mare, alla sua sinistra. Si fece ombra con la mano sopra gli occhi e guardò in quella direzione per qualche istante prima di realizzare che si trattava di un elefante. C’era un elefante che stava facendo il bagno a mare. Attraversò la spiaggia d’un fiato, a lunghi balzi, mentre sentiva qualcosa che gli strozzava l’aria nel petto e avrebbe urlato come un selvaggio se non avesse temuto di spaventarlo.
Arrivato in un attimo sul bagnasciuga, fermò la corsa per guardare il pachiderma che faceva la doccia con la sua grossa proboscide. Non aveva paura ma si chiese se dovesse averne. Poteva essere pericoloso? A lui non sembrava aggressivo, non aveva l’aria minacciosa, non sembrava neppure arrabbiato e anzi, si stava godendo il bagno rinfrescante per cui era arrivato fin lì.
“Ciao! Io sono Giuseppe.”
Non si aspettava che gli rispondesse, naturalmente, perché non era scimunito come dicevano i suoi amici quando dovevano rivelargli che le cose in cui credeva erano false, però non sapeva cos’altro fare per non sciupare quell’incontro. L’elefante doveva essere lì da un pezzo, perché smise di spruzzarsi l’acqua addosso e s’incamminò sulla spiaggia. Giuseppe lo seguì, e poi lo superò perché voleva trovare un bel posto all’ombra dove potevano stare insieme.
“Vieni! Seguimi, elefante, di qua c’è la fiumara con l’acqua fresca e l’erba verde… Vieni a vedere se non è vero!” Della fiumara ad agosto rimaneva solo un rivolo, ma in quel punto la sabbia lasciava il posto alla coltre di rami e foglie secche che cadevano dai pini marittimi, con la loro ombra fitta e secca.
“Visto? Io non ti dico le bugie. Io sono tuo amico, non ti do le frustate… Sai che c’è? Se te ne rimani buono buono qua, e non ti fai vedere da nessuno – ché tanto qui nessuno ci viene, se non chiede prima il permesso a me – domani ti porto qualche bella chilata di frutta fresca e lattuga. Eh? Che dici?”
L’elefante aveva iniziato a bere l’acqua del ruscelletto, il fondale era ricoperto di sassi, verdi per il muschio, fialette e flaconi di vetro che provenivano dall’ospedale, oppure di contenitori di plastica che l’acqua piovana d’inverno portava nel suo letto da ogni dove, e che rilasciava in mare tutto l’anno.
“Va bene se ti chiamo Jumbo? Ma tu sei maschio o femmina? Vado a vedere nel punto X, ok?” In quel momento, la coda si alzò leggermente per far cadere chili di cacca giallognola per il fieno e il bambino tornò al suo posto disgustato.
“Secondo me ho capito: sei femmina. Hai gli occhi da femmina. Va bene se ti chiamo Carmen? È la più bella della scuola”. Giuseppe si alzò dal tronco su cui era seduto e si avvicinò timidamente per accarezzarlo sulla proboscide. “Però quella è una zoccola. Si dà le arie solo perché è la figlia del dentista, che poi mio padre dice che è un ladro. Ma non lo possono arrestare, perché la legge dice che se uno fa il suo lavoro, di ladro oppure di prigioniero degli animali, i Carabinieri non lo possono arrestare.”
La mano metà bianca e metà color cioccolato del bambino accarezzava l’epidermide spessa e dura dell’elefante, che ora sembrava aver preso confidenza e abbassava la testa per facilitargli il gesto. Giuseppe poté specchiarsi nell’occhio che lo fissava placido, consapevole per la prima volta di che cosa fosse la felicità, sorrise e lo abbracciò senza timore.
“Senti, Elefante – va bene se ti chiamo Elefante, anche se sei femmina? – ma tu vieni dalla savana o dalla giungla? Come facciamo se ti devo riportare a casa tua, dove sei libera, se non me lo dici? Papà dice che la savana sta in Africa, che è più vicino, infatti questo caldo d’inferno viene da lì. Va bene lo stesso se ti porto nella savana africana? Stavo pensando che posso chiedere al mio amico Mustafà, che è venuto a Sant’Ilario per fare il vucumprà. Se è riuscito a venire qua dall’Africa, mi saprà dire come si torna indietro.” Rimase a pensare alcuni momenti, giocherellando con la lingua nella finestrella tra i denti, la fronte corrucciata, e poi disse:
“Io devo venire in Africa con te, ma devo pure giocare a pallone; quindi facciamo così: adesso devi rimanere nascosta qui fino a settembre, che è quasi arrivato madonna santa, e poi partiamo, così a te non ti rinchiudono nel circo e a me non mi chiudono a scuola fino all’anno prossimo, con la maestra Teresa che mi dà le bacchettate e mi dice che sono un asino. Anche a te che sei elefante ti dicono che sei asino, quando non sai fare le acrobazie? Mia mamma è diversa dalla maestra Teresa, lei dice che sono cretino, ma solo quando non la sto a sentire, e certe volte mi picchia con la cucchiarella o con la ciabatta. Invece, scommetto che le mamme elefante non li picchiano i figli…”
Si stava facendo l’ora in cui tutto diventa rosa: il cielo, il mare, la sabbia, e se uno fa attenzione, si vedono le acciughe che saltano sul pelo dell’acqua. “Guarda!” urlò Giuseppe puntando il dito verso il mare. “Facciamo l’ultimo bagno e poi me ne devo andare, va bene?”
La precedeva camminando all’indietro, agitando le braccia per farsi seguire, e sorrideva con la sua faccia nera e il buco tra denti bianchi, per quell’amica a cui era così facile voler bene e per quell’avventura che non si sarebbe neppure sognato di notte. Si tuffarono in mare, la superficie ondeggiava come al passaggio di una nave, e l’elefante cominciò a spruzzare l’acqua con la proboscide su di lui e sopra Giuseppe che dal canto suo cercava di schizzare a più non posso sbattendo le mani e i piedi. Il silenzio perfetto, che sembrava rosa anch’esso in quel momento, era rotto dal loro baccano festoso. Quando si sentì sfinito di lottare contro la resistenza dell’acqua, Giuseppe si fermò a riposare, tenendosi a galla con l’aiuto della proboscide.
“Senti” cominciò a dire con il fiatone “ma secondo te, quante volte si può essere più felici nella vita?” Calcolava che, solo quel pomeriggio, era stato più felice di sempre non appena aveva visto l’elefante in mare, e adesso che si divertiva da matti con lui, forse si sentiva ancora più felice di prima. Decise che avrebbe fatto un tuffo con gli occhi aperti, per vedere se l’elefante sapesse nuotare. Si riempì i polmoni e andò giù: l’elefante stava con le zampe come tronchi ben piantati per terra, anche se l’acqua azzurra e limpida dava a quel corpo enorme e ponderoso la leggerezza di un sogno, o di una favola. Con una spinta ritornò con la testa fuori dall’acqua, si premette le dita contro gli occhi che gli bruciavano e, mentre agitava la testa per fare uscire l’acqua dalle orecchie da una parte e dall’altra, vide una macchia scura che si avvicinava sulla sabbia. Si affrettò verso riva cercando di trascinare con sé l’elefante, che cominciò a muoversi solo dopo molte insistenze e con estrema lentezza. Il gruppo di uomini, quattro dovevano essere i domatori o inservienti del circo e due i carabinieri, si avvicinarono senza parlare. Giuseppe si frappose fra loro e l’elefante, alzando le braccia e cominciando a piangere:
“Lasciatela! Lasciatela! Lei vuole essere libera, vuole stare con me…”
Quelli gli rivolsero un sorriso di scherno, dicendogli di togliersi di mezzo, perché l’elefante apparteneva a loro, ma il bambino sembrava incollato al pachiderma, così si fecero avanti i due carabinieri, che tentarono di calmarlo facendogli domande banali.
“Io non sono cretino, lo so che mi volete confondere per allontanarmi. Ma io non sono un bambino piccolo, brutti stronzi figli puttana! Io sono grande, posso dire pure le parolacce…” le sue ultime parole avevano sollevato uno scroscio di risa. Dalla pineta cominciava ad arrivare anche altra gente, alcuni avevano la macchina fotografica e il taccuino. Giuseppe pianse più forte e si girò verso l’elefante e tempestandolo di pugni gli urlava di sbrigarsi a scappare, ma a quel punto i carabinieri lo sollevarono per le ascelle e consentirono ai circensi di guidare l’animale in direzione della statale. Giuseppe continuava a dimenarsi e a urlare:
“Schiacciali! Uccidili tutti!” con tutta la forza di quell’amicizia e del suo sogno infranti. Ma l’elefante camminava docile e rassegnato verso il destino da cui era riuscito a scappare anche se per poco.

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