Intanto vorremmo tutti fare festissima, ma Gin per aperitivo? Parliamone.
E invece non ne parliamo neanche perché non si fa. Punto. Ho capito che le sue amiche vogliono Hendrick’s più acqua tonica, ma a me è salito il nazismo e ho ordinato cinque Classici.
Lei capirà.
Ne ammiro la struttura opportunamente decapitata dallo specchio del bancone mentre Ricky mesce il triple sec col succo del lime; Ricky adesso nel Classico ci spruzza l’angostura – grande, io evito.
Me li serve subito.
Grandissimo.
Ed eccomi imbarcato nell’impresa di portare i cinque cocktail assieme, con le sole due mani, nel mio stato. Il quinto bicchiere sta nel mezzo retto dalla pressione dei compagni, prima punta d’eccezione – Del Piero. Macché: Baggio. Che è rimasto semplice.
Questo è il Gin Tonic?
No, non è il Gin Tonic, è un Classico. Ti piace?
Le piace.
È un’ottima Carpa D’Argento: timida, precoce, gambe lunghe e ben proporzionata senza essere la più figa della cumpa, quella sarebbe la Carpa D’Oro, che annusa il classico sospettosa. Assaggia. Arriccia il labbro superiore, fa che è aspro.
Certo che è aspro nani, per ape mica bevi roba dolce.
La Carpa D’Oro sbuffa, si gira e guarda il tavolino come a dire Grazie, il tuo parere appoggialo pure lì ma io sto già parlando alla Carpa D’Argento, ai suoi zigomi violenti, alle sue forme da panico, alla sua inutile borsetta pitonata. Le racconto di come bevono gli esperti amici miei, quelli che non hanno un cazzo da fare perché si sono arricchiti con le crypto o perché hanno la nonna duchessa. Le racconto di come Cracco ormai lo cagano giusto i rincoglioniti che vivono davanti al televisore, che i suoi piatti danno meno soddisfazione dei quattro salti in padella Findus e le racconto di come Bottura abbia svoltato la cucina internazionale, ma soprattutto quella italiana, con l’ausilio di una vaschetta di azoto liquido. Lei pende dalle mie labbra. Mi fissa con gli occhi giganti, un po’ divergenti, un po’ da Chihuaha, che promettono emozioni nel fine serata e chiede di com’era la festa dal Coty. Le dico: una merda, finché una tipa sbrocca, fa una scenata all’ex e – visto che metà della gente era mezza fatta e l’altra metà era fatta completa – si mettono a registrare tutti. Quindi sbirri, e capisci anche tu, alla fine, in un modo o nell’altro, la svoltiamo sempre.
Ride.
Ma non c’ha un cazzo da ridere la sua collega Carpa D’Oro che studia il muro, annoiatissima.
Il suo Classico ondeggia intatto dal tavolino.
La faccenda delle Carpe e relativa quotazione deriva da Sampei. Serve a conferire priorità agli obiettivi della serata in prospettiva di eventuale realizzazione, sarebbe una metafora sulla pesca. Non che io abbia mai pescato. La logica deriva dal cartone animato dove il protagonista mica sudava per prendere le carpe d’argento, per lui costituivano onesto e sicuro approvvigionamento. Altro discorso la Carpa D’Oro. Pregiata. Problematica.
Vabbè, l’Audemars segnala: è ora di un giro. Con l’indice e il medio faccio altri due a Ricky. Sì due. Uguali a prima, due Classici. Bravo. La Carpa D’Argento non ha ancora seccato il suo, comunque è saggio portarsi avanti. Torno dai suoi pois che ondeggiano al ritmo del quattro-quarti in sottofondo. Mi vede arrivare, scuote la testa e alza le mani preoccupata dal rilancio alcolico, così, per fare il simpatico, ancheggio sciallo sul bongo che si ripete e si ripete negli sleghi, le rifilo il cocktail e, senza lasciarle tempo per protestare o per la sceneggiata questo-lo-pago-io, le attacco una pezza sulla viticoltura biodinamica. Cioè, questi sotterrano per sei mesi delle corna di bove riempite con quarzo e merda, scavano fuori, tritano tutto e spruzzano in giro. Ma devi sentire il prodotto! Vino pazzesco! Capace che ti convinci anche tu dell’energia vitale dell’universo e stronzate analoghe.
Ah ci credi già.
Carpa D’Argento, non è che pensassi di parlare a un’ingegnera aerospaziale, ma così mi scendi e soprattutto mi prendi in contropiede, interrompi la corrente e io ci metto un attimo a ripartire. Valuto se discorrere con lei di universo, di vita, di morte e avvito pensieri deprimenti. Ma proprio per evitare profonde e vane riflessioni abbiamo inventato mille modi di stordirci, così mi abbevero da questo disco appiccicoso e nettarino. I suoi influssi sciolgono la negatività. Liberano l’anima dal giogo del piattume. È – ancora una volta – il trionfo del bere sul male.
Dissetato e pimpante mi ripropongo. Irrompo a gamba tesa nei loro discorsi con una massima di Esopo, o era Mihajlović? Stessa cosa. Tanto alla fine saremo uniti nella polvere.
Li ho disorientati.
Top. Ingrano la mia tesi su quanto i Cohiba stacchino i Montecristo per consistenza, per rotondità, per tutto e carpisco l’attenzione della preda più pregiata, quella dorata.
Riavvolgo il mulinello e il distillato di perfezione si avvicina. La salopette grigia segue le sue curve come la Honda di Vale ai tempi della gloria. È una sirena. Sorseggia dalla coppa, piega la realtà.
Ma aspetta un secondo. Il bicchiere è lo stesso. Gambo lungo che si allarga nel cono riempito del liquido scarlatto.
Quindi apprezzi il Classico. Ti sei forse ricreduta?, le domando. Invece intendo: Escile.
Lei risponde: Cocktail interessante, un quinto Bourbon, un goccio di angostura e dodici quinti cazzi miei.
Invece intende: Provalo, vediamo se ne capisci più di Ricky.
La stronzetta.
Avvicina il bicchiere e io assaggio.
La fisso con intensità balistica.
Però cambia tutto l’angostura, pialla gli spigoli, livella l’armonia dei contrasti, zittisce il cinguettio avvolto alle papille. Il drink è stravolto. L’angostura, barbarica, non fa prigionieri: è Tamerlano che incendia villaggi, che squarta neonati. Non puoi metterci l’angostura nel Classico, me lo stupri.
Riferisco il ragionamento alla Carpa D’Oro.
Lei sogghigna, indica il drink, poi sancisce: Sarebbe un Manhattan.
Duro colpo.
Incasso disorientato.
Due ventilazioni più tardi replico con un espediente da veterano: Vado aggiustarmi la bocca con qualcosa di secco.
Che esperto che sei… risponde e mentre gli altri ridono di me io ripiego nell’angolo, a tirare fiato. Vero intenditore!, infieriscono.
Mi appendo al bancone dove trovo sempre pronto Coach Ricky, Bartender Extraordinaire. Il suo sorriso motiva l’atleta e per la prossima ripresa suggerisce qualcosa di più strutturato, magari un Rob Roy – non ce la può fare, è fissato con l’angostura.
Dietro, sulla mensola più alta, una sfilza di bottiglie soccombe all’ombra di un monolite verdastro dal profilo semplice e dall’etichetta rettangolare. Libagione prediletta dagli abbienti traspare dal vetro spesso, la boccia gigante esprime autorità. Il Grande Cuvée Krug signoreggia sulle vodke alla menta, sugli amari e su di noi, comuni mortali.
Acquisto la magnum a beneficio dei tifosi.
La cullo mentre avanzo, la sua gravitas è da futura erede al trono imperiale e la torma di avventori si dispiega sbalordita al nostro passaggio. La reverenda bottiglia ha il controllo delle mie membra, le guida verso la Carpa D’Argento. Sta parlando a distanza ravvicinata con un tamarro qualsiasi quando interpongo Sua Eccellenza il Krug ed esigo il brindisi.
Lei, scocciata, lo sposta col dorso della mano.
Io faccio presente la caratura della broda e ruoto il fiasco per rivelarne il marchio.
Ta-dah!
Loro proseguono le ciarle sui meglio circuiti per l’addome.
Indegni riprovevoli bisunti. Poveracci.
Me ne vado.
Tanto con questa reliquia che porto a spasso ottengo quel che voglio dalla mia serata. Dalla nostra serata ragazzi.
Perché se ci piace sciaboliamo e ce la spruzziamo addosso, come sul podio ci facciamo la doccia alle ombrelline. La scuotiamo abbastanza da sparaci sulla luna con la propulsione delle sue schiume oppure chiediamo a Ricky di vuotarla direttamente nel lavabo per quello che ce ne frega.
Tu, con gli occhiali, mi prendi per il culo?
Ah scherzavi.
Allora va bene.
Vieni! Celebriamo una notte favolosa e superflua strappata a morsi all’eternità. Eleviamo preghiere a divinità ignoranti, anneghiamo il tedio, urliamo in faccia ai buffoni nostri compari, sicuri di esistere.
E sbocciamo.
Insieme, come fiori.
Anzi, meglio dei fiori.
A loro non costa nulla.