Papà caro, un giorno forse, dopotutto, vorrei davvero tornare a parlarti. Anzitutto controllerei se tu sei ancora tu. Cioè se le tue mani sono ancora le mani increspate dalle rughe; e se la tua voce è ancora la tua voce storpiata dai graffi; e se la tua pelle è ancora tutta bruciata dal sole.
Lo sgorgare delle mie parole ti direbbe che il dolore mi ha evoluto a uomo fatto; che le cose dopotutto mi vanno bene; che non mi piglia più il magone di arrivare a fine mese senza pane e che in apparenza tutto resiste in equilibrio. E che anzi il lavoro per averlo ce l’ho. Ma che la laurea in lettere alla fine non l’ho più presa perché col latino è stata la peggior guerra, e poi ogni poesia del manuale mi rispediva a te per il dolore. E Marisa ora aspetta, e ti farei col palmo il segno del pancione, se potessi, ammiccandoti una strizzata d’occhio. E non ti nascondo che il ruolo di genitore mi incute una briciola di disagio per il mio perpetuo problema di sentirmi di continuo inadatto, e poi mi riaffiora un rigurgito di malinconia. Però tu non dovresti avvilirti, e comunque te l’ho detto che le cose dopotutto mi vanno bene. Perché io credo d’averlo detto solo a me stesso, ma quando le cose girano per il verso giusto io non sono poi tanto certo di averne il diritto. È un po’, e questo me l’hai insegnato proprio tu, come se le difficoltà mi appartenessero per natura. Come se i conflitti mi toccassero di testamento. E proprio quando le cose girano male, questo però forse non te lo direi, t’assicuro però che è successo, mi devi credere, mi sale su un velo di tenerezza per la mia persona, per i miei sforzi al vento, per la mia vita assurda, sicché mi pare da quella palude invischiata di fango e terriccio di non esserci mai uscito e che, in fondo, quel labirinto mi si continui a dispiegare dentro, senza estinguersi mai. E se questo sia un bene o un male, io proprio non lo so.
E ci sono tante altre cose che preferirei tacerti, ma prima penso che ti direi quello che vorrei dirti. Che cioè le notti non passano mai e che il sonno resiste e la piaga del cuore piglia a sanguinare dall’angoscia e io mi alzo ed esco in veranda all’ombra dei salici e degli ulivi che tanto ti curavi di amare, a mettermi nel plenilunio. E proprio dinanzi alla finestra mi balzi nella mente quando rientravi dalle tue dure giornate con quel pastrano nero tutto logoro, denso di rattoppi, e dopo trangugiata la zuppa di fagioli, che per te era la carne dei poveri fieri, ci trovavamo per l’adunata di mezzanotte, io e te, che fremevi di perderti nelle descrizioni della luna, delle sue fasi, e che il plenilunio è per la scienza propizio per insonnia e ritmo dell’animo, e io che mi piegavo verso di te, tanto preso da cucirmi indosso una toppa di quiete, di riserbo, e le mie forze erano dispiegate in assoluto a conservare quel ricordo, di me e te, con la luna che ci penzolava sulla testa, a scaldarci come un tizzone, sfavillante come un faro, a sigillare cioè con quella sua luce il nostro patto segreto.
Io preparo di continuo il discorso che un giorno ti farò, certo; lo infarcisco di parole e ricordi, ma c’è sempre qualcosa che penso «guarda questo glielo devo proprio dire a papà» e prometto a me stesso di inserirlo, nel discorso, ma poi me ne dimentico e spasimo nel maledirmi per questa mia incapacità di memoria. Nella rubrica del cellulare figuri ancora, nell’elenco cioè, e quando ne avrò voglia chiamerò quel numero ormai immaginario. Sì, credo proprio che alla prossima luna ti parlerò, concedimi solo il tempo di metterlo a punto in tutta la sua esattezza il discorso che ti farò. Ma intanto rimando ogni giorno e ogni notte, forse per la maledetta paura di morire anch’io.