Era una bella giornata di settembre e su suggerimento di una guida del posto avevo deciso di fare una passeggiata sulla scogliera di Peniche. Da due giorni ero finalmente in vacanza ed avevo ammirato il paese bianco con i suoi vicoli acciottolati, la bella casa piena di oggetti d’arte, la campagna placida dei dintorni. In cima al paesino la scogliera svettava maestosa, a picco sul mare, un salto di 70 metri dicono le guide. La passeggiata era effettivamente spettacolare, il sentiero costeggiava questa immensa muraglia di roccia seguendone le curve e snodandosi morbido.
C’era una donna in cima alla scogliera. Indossava un vestitino corto che le ondeggiava leggero intorno alle gambe, spinto dal vento che a momenti sembrava abbracciarle per poi liberarle di nuovo, e si gonfiava spumeggiando verso l’alto, come una piccola medusa in mare aperto. Anche i capelli, lunghi e morbidi, non ricci, non lisci, si muovevano liberi, intrecciandosi e sciogliendosi sul viso bianco. Era ferma, lo sguardo rivolto al mare e alle isole al largo, immobile, di una fissità quasi innaturale. Il sole era alto in quell’ora del giorno ma il vento fresco lo rendeva piacevole, un tepore dolce che scaldava la pelle senza infastidirla. Cominciai a muovermi sulla superficie della scogliera attratta dai suoi buchi ed anfratti, piccole cavità scavate dalla furia delle tempeste nel corso di un tempo infinito. Era affascinante scendere nelle viscere di quella muraglia naturale, toccare le pareti a tratti lisce a tratti rugose, percepirne i dislivelli, scovare aperture simili a finestre affacciate sull’orrido spumeggiante. Ogni tanto, quasi spinta da una strana malia, mi sporgevo con cautela sui bordi frastagliati fino ai quali arrivavano, lampeggiando, gli spruzzi delle onde, così impetuose da scalare le alte pareti. Ed ogni volta che riemergevo da quei labirintici andirivieni lei era lì, immobile e pensierosa, bella come una statua sbattuta dal vento in quello spazio primitivo accecato dalla luce. La medusa fissava le isole con ostinazione e cocciutaggine, la testa bloccata verso il mare agitato che saliva spruzzando, a volte lambendole i piedi quasi volesse trascinarla con sé, l’abitino corto che ancora ondeggiava intorno al corpo svelandone le forme. Eravamo sole io e lei, unite da una strana fratellanza fatta di luce e colore, di suoni e solitudine, anche io attratta da quelle forme lontane affondate nel loro scrigno di acqua. In quell’ora le isole sembravano luccicare pacifiche, ma io sapevo che il mare intorno era infido, spesso agitato e vorace. Avevo letto che a volte le imbarcazioni non potevano avvicinarsi, tanto il mare sbatteva rombando contro gli scogli aguzzi ed inospitali, e che una di esse era abitata esclusivamente da uccelli che facevano grandi nidi sulle rocce deserte. Eppure, o forse per questo, quella vista aveva qualcosa di magnetico che svuotava la mente e la riempiva di suoni e di luci. Mi fermai non lontano da lei, avevo un panino con me e volevo mangiarlo proprio lì, le grida dei gabbiani e il fragore delle onde a farmi compagnia. Io mangiavo e lei ancora lì, immobile, a fissare le isole, non un sorriso, non un movimento delle braccia o delle gambe, i piedi inchiodati al suolo, lo sguardo vuoto. Cominciai ad avere paura, non vorrà buttarsi pensai; poi mi venne da ridere a quest’idea idiota, mica sei in un film horror pensai, sarà affascinata dalle isole come te, pensai, anche a lei avranno svuotato la mente quelle forme misteriose che brillano lontano. Non si mosse, ancora per qualche tempo che cominciava a sembrare troppo lungo, ma infine la vidi voltarsi e dirigersi verso il parcheggio, aprire una piccola auto blu e scivolarvisi dentro. Tirai un sospiro di sollievo – nonostante tutto una piccola fitta di angoscia aveva messo radici nel mio cuore- finii il panino e ripresi il mio cammino lungo la scogliera. Però era come se la magia di quel posto fosse stata deturpata, come se quella meravigliosa grandezza fosse stata sostituita da uno spazio vuoto e desolato, la luce risucchiata nei buchi e negli anfratti e trasformata in nebbia pesante. Camminai ancora per un po’ pensando alla ricca cena che mi aspettava, al bel letto comodo, alla frescura del giardino, quando sentii in lontananza l’ululato sguaiato di una sirena. Era l’auto di servizio dei pompieri, che arrivava dal paese di gran carriera. Tornai indietro di corsa, il cuore in tumulto, pensando no, non può essere lei e intanto correvo, correvo. Il luogo era transennato dai pompieri, l’auto non c’era più, al suo posto una borsa di quelle leggere, di stoffa, come le uso anche io d’estate per non sentire il peso del cuoio sulle spalle. Sì, proprio come le mie borse… La medusa si era lanciata dalla scogliera con tutta la sua macchina, un volo di 70 metri, non era la prima, mi dissero, e non sarebbe stata l’ultima. Mi sono accasciata a terra e ho vomitato il mio panino.
Sono tornata su quella scogliera qualche settimana dopo, volevo capire perché. Cosa aveva visto quella donna in quelle pacifiche isole lontane? quale promessa aveva ricevuto dalle profondità del mare? Ma non c’era più bellezza in quel luogo: ho guardato in basso ed ho visto solo un buco mostruoso, una voragine d’aria. Le isole sembravano ancora più lontane, sporgenti all’orizzonte come sassi opachi precipitati in un mare inospitale. Per un attimo ho avvertito il bisogno di allungare la mano, di toccarle, di capirle, ma una raffica di vento mi ha spinta ad indietreggiare. Cosa avevo in mente? Gli schiamazzi dei ragazzi sulle tavole da surf mi hanno riportata alla realtà. Ho rivolto uno sguardo nella loro direzione per poi accorgermi che in lontananza, sull’orlo di un’onda, una figuretta esile brillava per un attimo nella luce dell’orizzonte prima di sparire nel grande mare, evanescente e aggraziata come una medusa.