Questo racconto è stato scritto nell’ambito di un laboratorio di scrittura creativa
“Progetto scuola-lavoro 2022/23”, tenuto presso il Liceo Scientifico Tullio Levi Civita di Roma
dalla Scuola Omero
I genitori di Franco mi chiamano “l’amico immaginario”. E questo è molto strano dal momento che sono anch’io anche figlio loro. Solo la mamma a volte è gentile con me, perché ogni tanto apparecchia la tavola anche per me, mi lascia un posto libero quando sono tutti sul divano a vedere un film e spesso parla a Franco di me.
Quindi la preferisco al papà e le voglio bene, anche se non si dovrebbero avere preferenze per i genitori. Solo che poi penso al fatto che loro preferiscono Franco a me e allora mi infastidisco.
Ma Franco mi vuole bene e io ne voglio a lui. È il mio fratello maggiore, anche se mi comporto come se lo fossi io. Lui ha 10 anni e io 5. Franco non ha molti amici; papà non sta quasi mai a casa e la mamma se non lavora non gioca quasi mai con lui. Così sono io che lo sprono a studiare, ed è con me con cui passa la maggior parte del tempo a giocare. Di solito giochiamo con i Lego o con altri suoi giocattoli. Suoi, sì. A me non ne hanno comprato mai uno. Ma non importa, mi diverto moltissimo con mio fratello Franco e insieme stiamo bene. Di lui adoro tantissimo il suo sorriso, perché quando ride gli si formano due fossette sulle guance e risulta carinissimo. Eppure, da qualche mese, forse nove, queste fossette ha deciso di nasconderle per sempre.
A mamma è cresciuto un gran pancione, perché è incinta di un nuovo fratellino o di una nuova sorellina.
Sono felice, e allo stesso tempo ho tanta paura che Franco e la mamma si dimentichino di me.
Non voglio che mio fratello Franco possa mai sentirsi solo come me. La solitudine è davvero brutta e io lo so bene.
Poi un giorno Franco torna da calcio con una ferita ampia sulla gamba destra. Un infortunio che si sarebbe rivelato più grave di quanto ci si aspettasse; tant’è che per due i mesi non gli fu più possibile giocare. Ma a differenza di quanto immaginavo, Franco non dedicò più tempo a me, ma cominciò ad allontanarsi, ogni giorno di più. Interessato ai calcetti con cui suo fratello o sua sorella facevano ridere la mamma, al senso di novità che serpeggiava per la casa, intento a immaginare un futuro da vivere non più solo.
«Aiuto aiuto! Le acque! Le acque si sono rotte!»
Mamma comincia a precipitarsi con preoccupazione verso la porta. Ho paura… cosa succede? La seguo!
Ci precipitiamo in macchina: lei è al volante e io dietro.
Arriviamo di fronte un grande edificio, mamma scende dalla macchina e si avvicina a parlare con un’infermiera: in meno di cinque minuti si ritrova in sala parto con me al seguito: è durato tutto un solo istante.
All’interno della stanza c’è un lettino e un uomo col camice bianco e una targhettina riportante la scritta “Dott.re Bellaspada”.
La mamma si spoglia e indossa una vestaglia, apre le gambe e inizia a urlare.
Compare un piedino piccolo, anzi minuscolo, ma… Non sento più il mio… Mi reggo sul sinistro.
Ecco che ne compare un altro e così perdo contatto anche con la mia gamba sinistra, fino a quando il mio busto cade a terra.
Cosa mi sta succedendo? … sto scomparendo?
Ho paura… anzi no. Sono pronto, ho capito. Caro Franco, tu non ha più bisogno di me, ora è qualcun altro ad avercelo.
Sono sicuro che Franco sarà un bravo fratello maggiore, proprio come io gli ho insegnato.
Esce fuori un pancino collegato alla mamma tramite un tubo.
Ed ecco che improvvisamente tutto diventa buio e contemporaneamente tutto diventa luce. E poi piango, piango di fastidio, per questa luce che mi acceca.