L’Uomo Tigre era mio padre

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Avete presente quando qualcuno vi taglia la strada nel traffico e vi viene una gran voglia di scendere al prossimo semaforo, tirarlo fuori dal finestrino con le vostre mani e spaccargli la testa? Ecco, a me succede spesso, ma una volta al semaforo resto puntualmente seduto in macchina… Daniele Rutigliano, dopo una dura giornata di lavoro, è pronto a indossare la sua maschera da Uomo Tigre.

Avete presente quando qualcuno vi taglia la strada nel traffico e vi viene una gran voglia di scendere al prossimo semaforo, tirarlo fuori dal finestrino con le vostre mani e spaccargli la testa? Ecco, a me succede spesso, ma una volta al semaforo resto puntualmente seduto in macchina.
E pensare che da bambino il mio più grande desiderio era quello di diventare forte, anzi fortissimo, e coraggioso ovviamente. “E grazie!” direte voi, tutti da piccoli abbiamo sognato più o meno le stesse cose. È vero, ma io avevo un sogno più specifico degli altri e ci credevo tantissimo: io volevo diventare un lottatore. Sì, sì proprio uno di quei tizi che saltano dai pali dei ring per spaccare le schiene agli avversari con calci o gomitate volanti. Dite che ho guardato troppi incontri di Wrestling? Anche. Ma non mi sentivo ispirato da un banale passatempo per obesi americani, no: la mia ispirazione era più nobile, arrivava dall’Oriente, dal Paese del Sol Levante. In pratica, quando avevo cinque anni, Naoto Date, meglio conosciuto come “L’Uomo Tigre”, era mio padre.
Beh, le cose non stavano proprio così. Sapevo che il mio papà, quello vero, usciva presto tutte le mattine per andare al lavoro. Ma era un pendolare e lo vedevo soltanto di sera quando tornava a casa. Quindi di giorno il mio cervello sostituiva in automatico i suoi tratti con quelli di Naoto che un po’ gli assomigliava, però faceva il lottatore e non indossava la cravatta ma una bellissima maschera di tigre. Volevo bene a papà, sia chiaro, ma il protagonista di un cartone animato mi sembrava più figo. E poi pensavo che, forse, da grande avrei avuto i suoi muscoli e magari avrei lottato contro quei bastardi della Tana delle Tigri!
Certo, io da piccolo ero un bambino grasso e viziato, non esattamente un eroe… Ma per caso voi, a quell’età, avevate sogni possibili da realizzare? Scommetto che speravate di essere punti da un ragno radioattivo solo perché Peter Parker era uno sfigato e i suoi brufoli erano tali e quali ai vostri. Invece io un superpotere ce l’avevo già: non mi perdevo neppure una puntata de “L’Uomo Tigre”. Non era solo il mio cartone animato preferito, era quasi una religione per me. Tenevo sempre gli occhi fissi su quel cavolo di televisore mentre inzuppavo quantità industriali di biscotti nel latte, mescolandoli a cucchiai stracolmi di Nutella, e mi sentivo alla grande. Quando avevo cinque anni, ogni giorno iniziava in quel modo per me, e nessuno poteva farmi cambiare abitudine tranne un banale imprevisto, ovviamente. E mentre il semaforo qui si fa verde e riparto per arrivare al lavoro, mi viene in mente proprio quell’imprevisto…

Era una mattina come un’altra. Io ero seduto a tavola a guardare l’ennesimo incontro dell’Uomo Tigre, che era bloccato dalla morsa di Pitone Nero, quando la mamma cominciò a chiamarmi con insistenza. La sua voce, di solito angelica e rassicurante, ora suonava ovattata e fastidiosa: il pulmino della scuola materna era arrivato in anticipo e dovevo sbrigarmi! Naturalmente a me non interessava neppure, e non mi mossi ma, proprio quando l’Uomo Tigre stava per liberarsi dalla presa dell’avversario, lei mi strattonò per infilarmi grembiule e berretto. Non per vantarmi ma ci stavo da Dio con quella roba addosso, un vero bambolotto, però in quel momento mi faceva vomitare. Sbraitavo e piangevo come un indemoniato. Volevo vedere la fine del match, mi sarebbe bastato solo un secondo. Ma quella donna, più testarda del figlio che aveva partorito con dolore, non ne voleva proprio sapere. Con uno scatto felino afferrò il telecomando e spense la TV. Cercai di oppormi, urlai, piansi, ma quando arrivava quel pulmino giallo canarino, mia mamma diventava inflessibile. Dovevo andare e andai. Forse proprio quel giorno iniziò il mio classico rapporto di amore-odio con il senso del dovere…
Adesso mi viene quasi da ridere, a pensarci, ma ricordo che camminai verso la strada come un condannato diretto al patibolo, però il fucile, se così lo vogliamo chiamare, era un motore diesel scassato e scoppiettante.
All’asilo poi rimasi muto e con il broncio per mezza mattinata. Un po’ come quelle giornate in cui, nonostante ci sia sempre da fare al lavoro, a te proprio non va e resti a fissare il desktop del computer, ripensando all’episodio della tua infanzia che non ti si toglie più dalla testa. E ti sembra persino di sentire: “Son tre notti che non dormo, là, là ho perduto il mio galletto là, là, poverino là, là, poveretto, là, là, non lo posso più trovar…”. Le canzoncine dell’asilo io le adoravo, ma quel giorno no, improvvisamente le odiavo con tutto me stesso e mi rifiutai di cantarle. Non dissi una parola neanche quando Fabiana, la mia fidanzatina, mi portò un fiore fatto con il das. Adesso ha tre figli e un matrimonio alle spalle, Fabiana. Avevo così tanta voglia di lavorare che, quando ho smesso di fissare il desktop, ho spiato sui suoi profili social, naturalmente! Non è cresciuta per niente male ma ho sbirciato solo per curiosità come facciamo un po’ tutti, però non l’ho contattata. Anche questa è una cosa piuttosto comune, no? Comunque, tornando a quel giorno all’asilo, ricordo che riaprii bocca solo quando ci portarono in giardino per la ricreazione. L’aria fresca e la merendina farcita di cioccolata mi avevano riattivato il cervello. Approfittai della confusione del momento e provai a chiedere se c’era qualcuno che aveva visto la puntata de “L’uomo Tigre” per intero, ma non c’era niente da fare: il pulmino era arrivato troppo presto per tutti. C’era soltanto un alunno che diceva di aver visto la fine dell’episodio. Si chiamava Gianvito, era uno spocchioso fighetto, uno a cui piaceva tantissimo primeggiare e farsi dire “bravo” dalle maestre ma con i suoi coetanei si comportava in modo arrogante. E infatti dalla sua bocca uscirono solo risate. Risate più insopportabili di quelle del mio attuale capoufficio, che ride da solo delle sue barzellette. Io però non mi offesi con Gianvito, lì per lì, perché non mi interessava per niente offendermi, ma lo afferrai d’istinto per le spalle e lo scossi pregandolo di parlare. Era quello il mio unico pensiero, però lui restò zitto. E a quel punto gli dissi che avrei fatto qualunque cosa pur di sapere…
Così, Gianvito sollevò il dito e indicò il cespuglio di rose che aveva appena innaffiato Maria, la bidella della scuola. DIECI SPINE. Dovevo staccare dieci spine dai gambi di quei fiori e portarle a lui. Che cosa ci voleva fare neanche me lo chiesi, lo feci e basta. Le staccai una ad una con le unghie, indifferente ai tagli che mi ero procurato sui polpastrelli, e le portai a quel bambino capriccioso. Lui mi guardò soddisfatto, e ci credo! Ne prese cinque e mi mostrò un trucchetto che gli aveva insegnato suo fratello. Iniziò ad attaccarle fra le nocche della mano destra usando la saliva al posto della colla. Era incredibile: aveva appena costruito un tirapugni come quello che usavano i nemici dell’Uomo Tigre, e forse come quello che dovrei usare con certi miei colleghi, adesso. Era una sfida. Ognuno avrebbe tirato dei pugni all’altro, a turno. Non avevo mai dato dei pugni veri a nessuno, non sapevo bene come si facesse e avevo anche paura di farmi male, ma pensai che Naoto Date non si sarebbe mai tirato indietro, e accettai. Del resto volevo essere il suo erede in quel mondo di fantasia, che a me allora sembrava più vero della vita reale, ma mentre ero immerso con la testa in quelle scemenze mi arrivò un destro sulla spalla. Non ricordo neppure se provai dolore. Di sicuro le spine non erano pericolose come avevo immaginato, infatti si sparpagliarono sul grembiule senza neanche sporcarlo troppo. Il mio avversario rimase deluso, glielo lessi in faccia, ma non importava. Ora toccava a me e ci tenevo così tanto che lo colpii con tutta la forza che avevo. Anche le spine sulle mie nocche volarono via, ma il mio avversario cadde a terra al primo colpo. Che cosa si aspettava? Ero un mangiatore professionista di Nutella, io! Non come adesso che mangio sano ma non riesco nemmeno a dare un pugno a uno stronzo al semaforo o a un collega che mi fa la lezioncina su come dovrei lavorare. No, ero il più forte, avevo vinto e lui doveva mantenere la promessa: doveva raccontarmi la fine della puntata de “L’Uomo Tigre”.
Qualcuno però mi afferrò dalle orecchie e mi strattonò all’indietro. Era la maestra, mi trascinò subito dal direttore. E Gianvito non mi disse proprio un bel niente.

Ritornato a casa mi rifugiai di nuovo nel mutismo e mia madre ovviamente era su tutte le furie. Mi disse che era colpa dei cartoni animati violenti che guardavo e mi giurò che non mi avrebbe più permesso di farlo. Neanche l’arrivo di mio padre, quello vero, le sue urla e uno schiaffone sul sedere riuscirono a convincermi. Rimasi in silenzio nonostante la mamma mi avesse minacciato di mandarmi a letto senza cena. Forse perché in fondo lo sapevo che stava bluffando. Le mamme non possono rinunciare a nutrire i loro piccoli, è una legge della natura. Prima di andare a dormire, infatti, mi lasciò due fette di pane con il formaggio sul comodino. Però mi rimase tutto sullo stomaco perché passai una notte d’inferno e feci uno strano sogno…
Il pubblico dell’Uomo Tigre, immobile come in una foto, stava urlando frasi indecifrabili. Al centro del ring, solo, con addosso il grembiule dell’asilo, c’ero io. Ero molto confuso all’inizio, e vorrei vedere voi! Non sapevo proprio cosa fare finché qualcuno alle mie spalle non pronunciò il mio nome. Mi voltai di scatto trovandomi di fronte a Kenta. Ve lo ricordate? Era uno degli orfani di cui il buon Naoto Date si occupava, quello che si era auto-designato suo erede nel mondo della lotta libera. Lo so cosa state pensando, ma non fate i NERD adesso, perché vi batto dieci a zero. Io non avevo ancora visto il sequel della serie in cui NON Kenta, come crede qualcuno di voi, MA il suo compagno Tatsuo, o Tommy nella versione italiana, riusciva a diventare l’Uomo Tigre Secondo. Quindi, in quel periodo della mia vita, era Kenta il mio diretto rivale. A guardarlo meglio assomigliava pure a Gianvito e questo fece montare ancor di più il mio odio nei suoi confronti. Oggi forse ci vedrei la faccia del mio capoufficio, che con aria sprezzante arriva e mi sbatte una pila di moduli sulla scrivania proprio un attimo prima della pausa pranzo. Ma su quel ring non ebbi il tempo di rimuginare. Kenta mi assalì subito bloccandomi a terra. Con le sue mani viscide stava già cercando di strozzarmi e io mi sentivo davvero soffocare. Ero paralizzato. Il mio avversario diventava sempre più grosso e pesante, pur conservando l’aspetto di un bambino. Avvertivo il freddo del pavimento sulla nuca, il mondo mi sembrava sottosopra e avevo davanti agli occhi uno dei pali in cui s’incrociavano le corde del ring. Mi accorsi che in cima c’era appeso qualcosa di familiare. Kenta, o Gianvito che fosse o il mio capoufficio, mollò la presa e cercò di afferrare quella cosa, ma io mossi le gambe facendolo cadere.
All’improvviso mi sembrò di sentire la musica di sottofondo del cartone animato, come se fossi davanti al televisore, e questo mi diede coraggio. Mi risollevai tossendo e focalizzai l’oggetto appeso al palo: porca miseria, era la maschera dell’Uomo Tigre! L’altro bambino si stava precipitando a prenderla ma io, non so in che modo, forse allungandomi come Carletto il Principe dei Mostri, riuscii ad anticiparlo, indossai la maschera e divenni una furia. Presi Kenta per le gambe facendolo roteare in aria. Uno, due, tre, quattro, cinque giri e poi mollai la presa. Lui schizzò fuori dal ring come un proiettile, abbattendo un gruppo di spettatori in prima fila. La campana suonò segnalando la mia vittoria. E il pubblico urlò di nuovo, urlò in delirio per me.
Poi mi risvegliai con il sorriso. Anche se era stato soltanto un sogno mi sentivo comunque un grande: avevo vinto 2 volte in 24 ore! E oggi, mentre riconsegno i moduli compilati alla perfezione, quasi quasi sento di nuovo quell’orgoglio montare dentro di me, ma l’aria di sufficienza e l’ingratitudine del mio capo mi mettono di fronte al fatto che non ho mai combinato nulla di speciale in fondo e, forse, è arrivata l’ora di dare una svolta alla mia vita: essere come Naoto Date mi avrebbe voluto.
D’istinto, ritorno ancora a quell’episodio della mia infanzia. La mattina dopo lo strano sogno, mi alzai prima del solito e riuscii a salutare mio padre che stava uscendo per prendere il treno e non sembrava più arrabbiato con me. In casa c’era un silenzio quasi irreale. In cucina, il televisore era spento e il telecomando stava su un mobile troppo alto. Mia madre faceva avanti e indietro per l’appartamento, e lei, a differenza di papà, non mi rivolgeva ancora la parola. Presi comunque posto a tavola senza guardare i cartoni. Non c’era neppure la Nutella, solo latte e biscotti che iniziai a inzuppare senza creare poltiglie schifose. Mentre facevo il bravo bambino, però, iniziai a controllare i movimenti della mamma con la coda dell’occhio. Appena lei uscì dalla cucina, io scattai verso il televisore accendendolo manualmente attraverso dei bottoncini chiusi da un pannellino. Arrivai al canale dei cartoni animati in un attimo e rimasi allibito…
L’Uomo Tigre era ancora lì, braccato da Pitone Nero. Lui stava quasi per soffocare ma io tirai un sospiro di sollievo: capii improvvisamente che il giorno prima avevo perso solo pochi secondi della puntata. Il combattimento era stato interrotto sul più bello e diviso in due episodi per mantenere alto l’interesse nello spettatore. Succedeva spesso ma quella fu la prima volta che ne presi coscienza. Molti anni dopo, in un corso universitario, avrei persino studiato questo espediente narrativo, ma in quel momento l’unica cosa che mi interessava era sapere come andava a finire l’episodio. Non so perché, ma la mamma me lo permise. Forse pensò che avessi imparato la lezione e magari aveva ragione. Avevo capito che era inutile affannarsi così tanto per un cartone animato, prima o poi sarei riuscito comunque a vederlo. E anche se non sono diventato forte e muscoloso, oggi ho imparato a combattere per la mia felicità: ho buttato a terra l’ennesimo plico di fogli inutili e mi sono licenziato! Ho pure dato un pugno a un mio collega mentre uscivo dall’ufficio, e quello si è così spaventato che non ha neppure reagito. Sono andato via prima dell’ora di punta senza trovare traffico, ho aperto il finestrino per gustarmi il vento sulla faccia e c’ho messo pochissimo a tornare a casa: tutti i semafori erano verdi per me. Ho fatto un po’ di flessioni, che è da anni che non vado in palestra, poi un bagno caldo e ho ordinato la cena perché non avevo nessuna voglia di cucinare. E ora eccomi qua, dopo una lunga giornata, a immaginarmi un nuovo futuro mentre guardo sullo schermo ultrapiatto i cartoni animati della mia infanzia. Ovviamente sapete già qual è il mio prediletto.

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