Saranno più o meno le 7.45. Io, già sveglio da almeno due ore, sento Tea agitarsi nel letto, accanto a me.
Rimango immobile, di spalle. Disteso sul fianco sinistro, sudaticcio, sbavato. Spiaccicato. La guancia è un tutt’uno col cuscino. Nella stessa posizione da ieri sera. Da quando mia figlia, puntuale come al solito, si è presentata alle 21 per mettermi a letto.
Schiudo gli occhi. La poca luce che filtra dalle tapparelle si riverbera sulla sponda di ferro ancorata al mio lato del letto. Mi piace quel decoro di luce.
Tea – che intanto si è svegliata e medita di alzarsi da qualche minuto – si agita sempre di più.
La testiera del letto sbatte contro il muro. Sbatte lenta. Segue il ritmo del suo corpo muoversi nel tentativo di posizionarsi da seduto.
Fatica a sollevarsi, fa del suo meglio. Ogni giorno ne fa sempre un po’ di più.
Io che l’ho avuta di fianco per tutta la notte approfitto della fatica dei suoi arti – meno collaborativi di un tempo –, per sentirla vicina. Ancora un po’.
In verità mi piace anche la sensazione di pieno a cui segue il vuoto, quello lasciato dal suo corpo che si sposta, allontanandosi dal mio.
Gli sforzi di Tea per sollevarsi fanno sventolare lenzuola e coperte. Il materasso ondeggia.
Questo duplice movimento mi rinfresca e scuote. È un gettito d’aria sulla pelle umidiccia, ancora imbevuta di tepore notturno. Che mi sembra di ricordare com’era quando, qualche anno fa, col caldo di luglio o di agosto uscivo tutti i giorni a mezzogiorno per la consueta passeggiata e Tea che mi dava del pazzo.
«Ti verrà un collasso» diceva. Lo diceva sempre.
Ma io me ne fregavo e uscivo a piedi lo stesso, sotto il sole rovente. Già acciaccato, ma con le gambe ancora funzionanti, camminavo mezz’ora e poi – con l’avvertimento di Tea che mi frullava per la testa – mi infilavo di corsa dentro il Bar Italia e mi piazzavo davanti il ventilatore posizionato di fronte al bancone.
Il gettito d’aria era tutto per me.
«Signore, così mi ruba l’aria fresca» diceva il barista, scherzando. Poi mi serviva da bere.
Quel ventilatore, la simpatia del ragazzo e quella battuta – sempre uguale, ogni giorno – mi salvavano dal collasso che tanto preoccupava Tea.
Finalmente è riuscita a sedersi sul letto. Ha poggiato i piedi per terra, emettendo un respiro profondo. Ampio. Affaticato.
Quel respiro ha il medesimo strascico di un urlo, uno di quelli poco rumorosi che generano un piccolo tremore nel corpo. Come quando perdeva la pazienza e si incazzava con me, tirando fuori soltanto quell’urletto silenzioso, tipico suo. Non un suono vibrante all’esterno, ma una piccola, piccolissima, scossa che echeggiava come un sibilo interrotto.
A dire il vero adesso quel respiro lo sento due volte, sdoppiato. Uno mi rimbomba nell’orecchio, l’altro mi appare lontano. Distante.
Ma ciò che l’udito non riesce a ingannare è la percezione della sua forza. La sento convogliare tutta sui pugni che fanno pressione sopra il materasso, per accompagnare meglio la spinta che dà il via al suo balzo finale. Ecco, si è alzata.
E io, girato dall’altra parte, rimango immobile, nella stessa posizione da ieri sera.
Quando la luce del corridoio si accende, l’ombra di Tea si proietta sulla parete di fronte. Appoggia la mano allo stipite della porta, in prossimità dell’interruttore. Sosta qualche secondo, poi si allontana.
L’ombra nera si muove, passo passo, lenta. Fino a dissolversi. E in quel grumo di oscurità lo vedo: il peso del suo tempo. Il tempo delle cose che si ripetono e ripetono. Come una danza rituale fatta di gesti piccoli. La danza di Tea.
E allora aspetto, ansioso, di essere tirato giù dal letto e posizionato sulla maledetta sedia per osservarla, oggi come ieri, mentre invecchia. Come se la cosa non riguardasse anche me, che vecchio credo di non esserlo mai stato davvero.
O forse lo sono a volte, attraverso Tea. Attraverso i suoi minuscoli gesti di cura per me, per lo spazio.
Frammentati incompleti. Spesso interrotti. Dimenticati. Squarci di una vita intera, di cui la nostra casa è diventata l’altare.
Custodisco io la tua vecchiaia, Tea – dico a me stesso – mi sa che tu non ci fai molto caso.
Del resto, del mio corpo vivo residua l’involucro di un’esistenza quasi morta: ed ecco che la vita diventa un sogno dentro un sogno.
Saranno passati dieci minuti o forse quindici. Tea – spettinata e ancora assonnata – rientra in camera, si accorge che sono sveglio e viene verso di me.
Dice qualcosa. Le sue labbra si muovono.
Poi sempre più vicina, la ripete di nuovo.
«Hai ragione, amore, sono ridotto all’osso» rispondo, consapevole di aver capito male.
Ride di gusto, divertita nel vedermi rimbambito – e lo ammetto, diverte anche me.
Si china sul mio orecchio e con voce squillante mi fa: «Il polso, Nino, il polso. Ti fa ancora male?».