Morto Bebo, Jessie smise di parlarmi.
Bebo era il nostro cane – o meglio, il suo cane. Non che io provassi meno affetto e non che l’affetto si possa misurare, ma fu lei ad acquistarlo in un allevamento di bull-terrier di campagna, come si faceva ai vecchi tempi. Uno del tipo piccolo, detto miniatura, che all’atto pratico è un nano, e io lo amavo proprio in quanto tale, privo di chance di sopravvivenza in qualsiasi teatro di competizione naturale, figuriamoci contro un Pokémon.
Era affettuoso e buffo, un impasto di frolla e peti. Quel cane faceva ridere. La sua genetica balzana si traduceva in un muso oblungo, nel nasone a forma di cuore e in una rigidità articolare che conferiva alla sua corsa un’andatura da lepre piombata, le zampe posteriori gravate dall’incarico di propellere il botolo.
Quel giorno tornai verso l’ora di pranzo di un’assolata giornata primaverile. Il profumo della brace mi accolse, forse i vicini grigliavano, o forse il loro mostro incandescente aveva preso un’altra pantegana. No. Aveva preso Bebo.
Lo trovai in giardino, carbonizzato.
Gambe all’aria nella posa che aveva di solito nella cuccia. Fuori dalle orbite fumanti colavano gli occhi.
Restai immobile.
Mi riscosse il vicino.
Si scusò moltissimo, sua moglie avrebbe dovuto tenerlo nella sfera, frignava. Mi portò da bere, poi confermò che la sua assicurazione da capopalestra avrebbe coperto il danno in maniera più che congrua. Sbrigò la pratica e mi lasciò ciondolare verso casa.
Respiravo con la bocca, facevo le bolle. Pensavo a quanto era lucido il pavimento. Mi ci potevo specchiare. Listelli incastravano listelli formando tessiture spigate ripetute uniformemente nell’onda rigida che si svolgeva sotto i miei piedi, interrotta soltanto dal riflesso di un babbeo. Io.
Dovevo riprendermi, rendermi utile. Jessie sarebbe tornata presto.
Arrivò mentre consegnavo il cadaverino imbustato all’azienda urbana per lo smaltimento dei rifiuti. Poteva uscirmi una parola gentile, compassionevole, affranta, una cosa normale, invece dissi: «Niente più passeggiate alle dieci di sera».
Jessie alzò gli occhi dalla sagoma annerita impressa sulle piastrelle.
Mi fissò a lungo.
Entrò in casa.
Le andai dietro seguito dallo scalpiccio di suole invischiate nella carne sciolta. Raspai lo zerbino per non imbrattare il parquet.
Col lutto me la cavavo. La vita proseguiva e io mi ero prescritto una miracolosa terapia a base di videogiochi. Assorbito dalla frenesia aggredivo gli stick. Jessie sbatté la porta d’ingresso carica di sacchi della spesa. Organizzava le scansie libere della credenza. Aveva gettato ogni scatola di cibo per cani, ogni giocattolo mangiucchiato e tutte le cucce, stuoie, ciotole erano scomparse. Una presenza festosa cancellata per non incappare in memorie scomode, tipo buttare il cerotto sul pollice che ti sei affettato con le zucchine. Sul momento mi parve una risposta razionale e certo un migliore utilizzo dello spazio. Se credevo di gestire abilmente le emozioni, Jessie si dimostrava ancora più organizzata.
Era il caso di sfaccendare, conclusi. Lei era impegnata con la credenza e io pensai al freezer che di norma è il primo di cui occuparsi. Una volta finito la raggiunsi ai fornelli, ma lei mi scansò.
Dal ragù di carne una nota rosolata insidiava la gola, o forse è che proprio non avevo fame. Alla prima forchettata un fiotto acido risalì la gola. Guardai Jessie: fissava il vuoto, una maschera spenta. Io masticai una, due, quarantasette volte. Deglutii solo grazie al bicchier d’acqua.
«Il risarcimento potrebbe farci comodo», dissi.
Ragionavo a voce alta, finto distratto.
Jessie arrotolò l’ultima tagliatella, la ficcò in bocca e si alzò da tavola. Stringeva il piatto come volesse romperlo.
Rimasi per qualche minuto davanti alla pastasciutta. Poi la rovesciai nell’umido e colsi un forte odore, anche se il sacchetto era nuovo. Era il mio cervello avariato a mandare quell’odore. Il cervello di una goffa, inutile, e seccante nullità. Oppure erano pezzi di Bebo incastrati nella gomma tassellata della suola.?
Sparecchiai.
Poiché la spontaneità si era dimostrata controproducente per riavvicinarmi a Jesse dovevo architettare qualcosa di più ragionato e presi a escogitare manovre di cauto riavvicinamento. Imbacuccata con me sotto il piumone si lasciava stringere, accarezzare, singhiozzando incontrollatamente sul cuscino. Avrei cambiato io le federe.
Salii le scale. Era il momento di profumare camera con l’incenso al sandalo, disporre i boccioli e proporre una meta shock per il weekend.
In camera Jessie puntellava la finestra coi pugni e digrignava.
Osservava il giardino che aveva cosparso di esche avvelenate che si rivelavano inutili. Da sotto il Salazzle trangugiava i bocconi di pollo impanati nella stricnina e ogni tanto tossiva una nuvola di fumo viola a forma di teschio che fluttuava come una mongolfiera assurda. Salendo alle stelle il cranio allungava osceno poi le orbite sfumavano in volute tese nella direzione del vento. Poi raschiava un colpo di tosse e oltre la siepe giungeva il suo grasso gorgoglìo, delle scintille e il sibilo della coda triforcuta del mostro che serpeggiava ai limiti del nostro terreno.
Entrai di soppiatto, alle sue spalle, la allacciai con due mazzi di fiori, da un lato strabordava la composizione di Interflora e dall’altro, piegate dalla vergogna dell’accostamento, le margherite del parchetto.
«Meritiamo una pausa.», parlavo con la voce più bassa e calda possibile. «Una vacanza!»
Speravo in una esplosione euforica di possibili mete.
Non arrivò mai.
«Che ne diresti di due settimane di totale relax maldiviano?»
Nessuna risposta.
Rilanciai: «Sud America itinerante!»
Jessie si divincolò e corse in corridoio, si chiuse nello studio.
Non reagiva alla grande insomma.
Volendo trovare un lato positivo alla cosa stavolta mi dimostravo solido, emotivamente organizzato, tosto. Reagivo e mi prendevo cura della mia compagna. Almeno ci provavo.
Deposi i bouquet sul comò, esalavano fragranze che dal naso passavano dirette a strangolare la bocca dello stomaco.
Cercai Jesse in casa, in garage, in soffitta, poi mi tuffai sul divano.
Rincasò mentre davo battaglia dal televisore del salotto. Non si fermò a salutare, né ad abbracciarmi, scomparve subito. Servì un attimo per mollare il controller.
Svuotava gli armadi in corridoio e stipava i trolley di pigiami, caricabatterie, creme corpo, cumuli di biancheria, ciappi per capelli a forma di paguri, maglie, accappatoi e tutti gli orecchini che non le avevo regalato io.
«Te ne stai andando…», farfugliavo.
Con un grido Jessie scaraventò la scatola degli scarponi da trekking. Ruzzolò fino al pian terreno.
«Non fare così… Dai! Adesso vado a prendere sei chili di gelato così ci sentiamo meglio.», dissi. Giocavo con le dita, nervoso, scrocchiavo i mignoli coi pollici e li intrecciavo. «Solo vagamente meglio magari, ma almeno un pochino… È l’effetto degli zuccheri, è transitorio, ma funziona per forza!»
Riempiva il borsone da palestra.
«Facciamo due passi. Schiariamoci le idee. Parliamo.»
La mia voce si spense.
Scesi a prendere aria.
Il gelo annientava ogni pietà che potessi provare per me stesso. Serrava sui denti, e basta.
Sbuffai una boccata che condensò senza delineare un profilo preciso. L’oscurità avvolgeva la casa, trafitta dai fari nell’erba. Con un piede coprivo la luce, come quando ero fuori mentre Jessie fumava, ma con mestizia, copiavo un rituale dedicato ai momenti felici. Piegavo la luce sulla punta delle ciabatte e osservavo la rugiada impregnarmi calze. Avanzai il piede ad oscurare il faretto e colpii qualcosa.
Dalle fronde sbucava quella caricatura di rettile sputafiamme, congelata. Il coccoloso coccodrillo del vicino, adorabile per design, era cristallizzato in un’espressione stupita.
«I Salazzle sono immuni al veleno, ma vulnerabili all’acqua… E al ghiaccio.», disse Jessie avvicinandosi.
Tirò un calcio a quella statua cristallizzata. Poi un altro.
Con uno scricchiolio, il braccio cedette, rotolò nell’erba spruzzando una scia di sangue che zampillava dal moncherino. Il cuore di quella creatura batteva ancora.
Mi voltai mentre Jessie decapitava l’essere a pedate.
Corsi dentro in preda ai conati.
Vedevo il mio fido compagno Bebo inseguirmi per avergli rubato il pupazzo; i balzelli che faceva, spensierato; il nasone a cuore. Lo vedevo squagliarsi. Vedevo le Pokéball dilaniate a morsi mentre noi, per scherzo, provavamo a pigiarcelo dentro, capitava quando non avevamo voglia di portarlo a spasso per i suoi bisogni, anche se alla fine ci andavamo sempre. Mi mancava il suo alito fetido. Il borbottio incerto e pauroso quando sentiva dei rumori da fuori e le corse pazze che faceva tra le nostre gambe per tuffarsi nei cumuli di foglie e la foga quando gli preparavamo le pappe, la sua danza maniaca col muso all’insù per gustare gli odori. Il suo gorgoglìo sgraziato quando beveva dalla ciotola e innaffiava ovunque. Asciugavo volentieri i suoi schizzi.
Immagini, sensazioni, precipitavano su di me inerti come polvere. Non sapevo reagire alle memorie felici su cui si depositavano quelle più recenti, e oscene.
Jessie mi avvolse.
Singhiozzavo incontrollato su di lei.