Giacomo cenava all’osteria quasi tutte le sere. Beveva un mezzo di rosso e due grappini, qualche volta anche tre. Mangiava polpette, würstel, crauti, minestrone, gnocchi con gulasch; calamari fritti al venerdì. Quando la moglie era viva non ci andava quasi mai. I vestiti puzzavano di olio per friggere, fumo di carne sulla piastra e l’alito sapeva di vino. Gianna era stata una donna collerica e gelosa. Diceva che lui andava all’osteria per spassarsela con qualche ubriacona del quartiere. Quando si arrabbiava gli tirava dietro sedie, stoviglie, c’era mancato poco che lo mandasse all’ospedale. Lui la supplicava di smettere e si nascondeva in bagno a piangere come un bambino. Ora che Gianna era morta ammazzata da un camion all’incrocio sotto casa, in osteria ci andava quando gli pareva. Non lavorava più. Era stato licenziato perché una notte l’avevano trovato ubriaco nella guardiola del capannone. Prendeva la disoccupazione. Guardava la televisione, leggeva il quotidiano locale, faceva quattro passi nel quartiere e, quasi tutte le sere, cenava all’osteria. Prima o poi sarebbero arrivati i soldi dell’assicurazione. Si sarebbe affittato un appartamento in un posto per bene con giardinetto e garage privati. Avrebbe scordato il corpo di Gianna schiacciato dal camion e le pisciate di cani e alcolizzati sui marciapiedi.
Giacomo usciva per andare all’osteria anche se diluviava o tirava vento. Voltava le spalle all’incrocio dove era morta Gianna e proseguiva fino al vialone che portava all’ex Caserma del battaglione Sassari, convertita in alloggio per immigrati della rotta balcanica. Sull’angolo c’era l’Osteria da Franco. Non era molto frequentata, qualche operaio a pranzo e uomini soli a cena. Andava meglio il sabato sera quando arrivavano coppie di mezza età vestite di tutto punto che pareva andassero a un ristorante tre stelle Michelin. Lui arrivava presto e si sedeva al tavolino difronte alla porta. Sperava che entrasse qualcuno di sua conoscenza per fare quattro chiacchiere. Ogni tavolo aveva la tovaglia di plastica verde ed era illuminato da una lampada. L’oste accendeva la luce sui tavoli occupati, gli altri restavano in penombra. A Giacomo sembrava di essere al tavolo da poker del casinò oltre confine dove una volta era andato con Gianna. Aveva perso tutto. Prima di salire in macchina lei gli aveva mollato due sberle e aveva detto di tornarsene a casa a piedi. Lui aveva chiesto un passaggio. Era arrivato prima della moglie. L’aveva aspettata fuori dal portone e Gianna gli aveva mollato altri due ceffoni per poi chiudersi a chiave in camera da letto.
Quando sarebbero arrivati i soldi dell’incidente, al casinò ci sarebbe tornato da solo. E stavolta non avrebbe perso.
Quel sabato sera diluviava. Nell’osteria c’era solo Giacomo. Quando il donnone entrò lui stava portando alla bocca una forchettata di crauti. Aveva già bevuto due bicchieri di vino e sperava arrivasse qualcuno con cui farsi i grappini. La donna portava un pellicciotto sintetico blu, fradicio di pioggia. Lo tolse, e Giacomo strabuzzò gli occhi nel vedere tutta quella carne strippata in un abito di lanetta viola che arrivava a mezza coscia. I collant erano rosa come quelli della nipote che frequentava i corsi di danza classica organizzati dalla scuola. Le calze finivano in un paio di stivaletti marron, numero 43 se non più, pensò Giacomo, che sostenevano un corpo di almeno un metro e ottanta. Spostò lo sguardo dalle cosce al volto. Gli ricordava il sole dell’almanacco Barbanera che Gianna aveva appeso alla porta della cucina. Largo e piatto, sopracciglia e bocca sottili. Niente trucco. Capelli viola a spazzola. Lei si accomodò al tavolo difronte a Giacomo e fece un cenno di saluto all’oste con l’enorme mano su cui portava un anello d’argento che sprofondava nella carne pallida. Lui si avvicinò al tavolo del donnone. Disse qualcosa che la fece scoppiare in una risata fragorosa. Giacomo mangiava senza distogliere gli occhi da quella massa di muscoli e grasso che nel frattempo si era messa ad ascoltare un messaggio vocale. Quando ebbe finito scosse il capo e ricominciò a ridere.
«Che cazzate!» esclamò mentre Franco le serviva un mezzo di bianco e un piatto di affettati misti. Lei si versò un bicchiere pieno fino all’orlo e lo alzò verso Giacomo.
«Lo facciamo un brindisi?» gli chiese.
«A chi?»
«A te e a me, no?» E scoppiò di nuovo a ridere. «A chi vorresti farlo? Non lo vedi che non c’è nemmeno un cane?»
«A nessuno allora!» E alzò il bicchiere verso la donna.
Lei ficcò un crostino nella bocca minuta. La luce sopra il tavolo si spense. Chiese all’oste di riaccenderla. Si sarà bruciata la lampadina, non ne aveva altre, si scusò lui, poteva cambiare tavolo, se preferiva. Il donnone si alzò, aggiustò l’abito sui fianchi, prese il bicchiere e si avviò verso Giacomo.
«Posso?» gli chiese.
«Prego» rispose lui.
Il donnone spostò affettati e pane sul tavolo di Giacomo.
«Aspetti qualcuno?» gli chiese.
«No» rispose lui.
«Ce l’hai una donna?»
«No.»
«Non ti interessano?»
Lui le prese la mano.
«Che pietra è?»
«Lapislazzulo.»
«Bello.»
Nel mentre, la sala si era riempita. Il donnone si passò il tovagliolo di carta sulla fronte sudata.
«Vieni spesso qui?»
«Quasi tutte le sere.» Lei gli passò un dito sull’anulare della mano sinistra.
«Hai il segno della fede.»
«È morta.»
«Mi dispiace.»
«A me no.»
«Non andavate d’accordo?»
«No.»
Franco si avvicinò al tavolo. Tolse i piatti e chiese a Giacomo se voleva la solita grappa. Lui ne ordinò una anche per il donnone. Lei rifiutò.
«Questa notte lavoro» disse.
«Annalisa, non dirmi che sei tornata a fare quel mestiere!» esclamò Franco.
«Sì, che male c’è?»
L’oste fece spallucce e si mise a pulire il tavolo lasciato libero da Annalisa. Poi raggiunse il bancone per servire due uomini e una donna della Guardia Giurata.
«Che lavoro fai, Annalisa?» chiese Giacomo.
«La buttafuori.»
«La che?»
«La buttafuori, sbatto fuori dal locale quelli che cercano rogne. Hai presente?»
Giacomo scosse la testa.
«Incredibile.»
«Perché?»
«Perché sei una donna.»
«E allora?»
Arrivò il grappino. Lui lo buttò giù d’un fiato e squadrò Annalisa.
«Dove lavori?»
«Al casinò oltre confine. Prima stavo nella discoteca accanto. Meglio il casinò, è più tranquillo. Ci sei mai stato?»
«Una volta.»
«Come è andata?»
«Male.»
«Mi accompagni?»
«Non ho soldi da buttare.»
«Andiamo su con la navetta, ti offro un grappino al bar e poi torni a casa. Che ne dici?»
«No.»
«Ma dai, forza, questa sera ho bisogno di compagnia.»
Lui acconsentì. Buttò giù un altro grappino. Uscirono. Non pioveva più. Lui tirò su il cappuccio del giaccone per proteggersi dal vento gelido.
«Hai freddo?» chiese Annalisa.
«Un po’. Da dove parte la navetta?»
«Dal piazzale della stazione.»
«È lontano.»
«Eddai, ti fa bene camminare!»
Lo prese a braccetto e attraversarono le strade buie. La navetta era ferma al parcheggio dei bus extraurbani, chiusa. Annalisa disse che il conducente sarebbe arrivato tra qualche minuto, aspettava l’ora della partenza al bar dei cinesi che restava aperto tutta la notte. Indicò il baretto illuminato da lampioni rossi con un enorme drago arancione dipinto sul vetro. Chiese a Giacomo se aveva voglia di farci un salto. Lui disse che preferiva aspettare all’aria aperta.
Il conducente arrivò puntuale. Era un omino smilzo con una lunga barba nera e la testa calva. Quando vide Annalisa spalancò le braccia tra le quali Annalisa tuffò il corpo immenso. L’omino rise.
«Che fine avevi fatto?»
«Segreto.»
«Ci mancavi.»
Lei gli presentò Giacomo.
«Mi accompagna e torna giù con te. Non ti fermi, vero?» chiese lei rivolta a Giacomo.
«No.»
«Peccato» rispose Annalisa, e si avviò all’entrata della navetta. Piegò la schiena e raggiunse i due sedili anteriori dove si sistemò con il pellicciotto umido buttato addosso come coperta. Giacomo si sedette dietro al conducente. Non c’era nessuno nel pulmino. Ancora troppo presto, pensò lui. Quella volta che c’era stato con Gianna il casinò si era riempito che era quasi mezzanotte. Il conducente accese la radio e partì. Si fermò al parcheggio davanti all’Università. Annalisa dormiva, il volto era pallido e la pelle liscia era illuminata dai lampioni. Il pellicciotto era caduto a terra. Giacomo lo raccolse e la coprì. Non salì nessuno. Il pulmino ripartì, uscì dalla città, prese la strada che portava all’altopiano. Le case sparirono, rimasero solo i boschi illuminati dalla luna. Raggiunsero il casinò. Annalisa si sgranchì e sorrise a Giacomo, poi scesero sul piazzale sferzato dal vento.
Lui le indicò la cima del Kokoš dietro al casinò, bianca, nella luce della luna.
«Ha nevicato.» disse.
Lui sollevò lo sguardo e assentì con la testa incassata nel giaccone. Lei gli diede una pacca sulla schiena.
«Dai, forza, entriamo che ti offro un grappino.»
«No, ti ringrazio.»
«Eddai, che ti scaldi!»
«No, Annalisa, grazie.»
«Torni subito in città?»
«No.»
«Dove vai?»
«Lassù» disse Giacomo e indicò la cima del colle innevata.
«Non dire stronzate. Vieni a berti ‘sta grappa!»
Un uomo si affacciò alla porta del casinò e la chiamò. Lei si precipitò ad abbracciarlo. Scomparvero nel locale. Giacomo s’incamminò sul sentiero che attraversava i prati. La terra gelata scricchiolava sotto le scarpe. Lo stagno brillava nella luna. Quando la traccia cominciò a inerpicarsi tra le rocce si voltò. Il pulmino usciva dal parcheggio che si stava riempiendo. Lui infilò le mani nelle tasche e continuò a camminare nella notte battuta dal vento.