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Illustrazione di Agrin Amedì
La luce al neon è perfettamente in tono con la vernice del corrimano, non trovi? Oltre il vetro del negozio osservo un’infinità di strumenti a corde. Non c’è alcun ordine nella disposizione: sono appesi in modo da stringersi il più possibile gli uni con gli altri, accavallandosi malamente e facendo a gara tra loro per essere guardati. La luce verde si riflette da una superficie all’altra, illumina la vetrina, esce dal negozio e mi colpisce in viso… Alice Frisinghelli si addentra in paesaggi urbani antropomorfizzati.

Per tornare a casa dal pub basta seguire Mariahilferstraße fino alla stazione. Prima, subito di fronte al pub, c’è una scalinata. Il suo corrimano verde scuro si interrompe bruscamente quando il muro di cemento lascia il posto alla vetrina di un negozio. Una luce al neon verde s’irradia dall’interno e colpisce il cemento della scalinata. So esattamente cosa mi diresti.
La luce al neon è perfettamente in tono con la vernice del corrimano, non trovi?
Oltre il vetro del negozio osservo un’infinità di strumenti a corde. Chitarre, mandolini e liuti sono appesi l’uno vicino all’altra e coprono l’intera parete di fondo. Non c’è alcun ordine nella disposizione: sono appesi in modo da stringersi il più possibile gli uni con gli altri, accavallandosi malamente e facendo a gara tra loro per essere guardati. La luce verde si riflette da una superficie all’altra, illumina la vetrina, esce dal negozio e mi colpisce in viso. Adesso anche la mia pelle è verde.
Un lampo illumina per un momento la notte e un volto compare sul vetro bagnato del negozio. I lineamenti sono incerti e si perdono nelle gocce di pioggia, ma distinguo chiaramente la carnagione verde e gli occhi neri. La pelle ai lati della bocca è tirata in un sorriso e forma delle leggere rughe, mi sembra di intravedere anche della barba.
Allungo la mano, ipnotizzata da quella figura, ma vengo sorpresa quando la pioggia diventa improvvisamente più fitta. È questione di secondi, ma l’immagine è già scomparsa. Mi avvicino al vetro per proteggermi e aspetto infreddolita, non ho messo la giacca impermeabile.
Nei miei pensieri osservi questa vetrina, perché ti piacciono le luci al neon.
Non la senti? – mi diresti.
Cosa? – ti chiederei.
Questa via.
Cioè?
Le insegne al neon, i graffiti, le crepe nel cemento e gli edifici tanto alti che non ne vedi la fine. Le luci delle finestre. Cyberpunk.
Metropolitana.
No, Cyberpunk – ripeteresti, come se quella definizione potesse svelarmi la strada.
Mi allontano dalla vetrina e mi insinuo tra quei palazzi tanto alti. Dai muri delle abitazioni penzolano pezzi di intonaco, tubi e cavi, ma non c’è alcuna luce tra le finestre, solo tapparelle pesanti e rovinate.
Un lampione, poco più avanti, illumina l’impalcatura dall’altro lato della strada. C’è qualcosa di diverso stanotte. La luce dei lampioni fa risaltare la ruggine del metallo ed è la prima volta che quei tubi mi appaiono così incredibilmente fragili.
Non vedi come i tubi sono scheletrici? A fatica reggono il loro stesso peso, ma vogliono provare anche ad avvolgere l’edificio. Ma la gabbia che creano è arrugginita, è fragile. L’edificio potrebbe liberarsi da un momento all’altro e la gabbia ricadere sulla strada.
Non capisco bene chi sia a parlare, le nostre voci si confondono nella mia mente. Forse ti faccio parlare perché ho bisogno che sia tu a dirlo.
Cyberpunk? – chiedo.
No, noi.
Noi?
– rispondi – tu sei l’edificio, ti reggi a fatica, ma stai in piedi, e stando in piedi reggi anche l’impalcatura. L’impalcatura si inganna, pensando di essere lei a reggere, coi suoi tubi arrugginiti. Ma appena tu tremi, lei crolla. È una finta impalcatura.
Alzo lo sguardo e osservo i tubi: sono ancora tutti in piedi, nonostante le crepe dell’edificio. Invece io non ho nemmeno tremato, sei caduto e basta perchè l’edificio era troppo alto.
Un lampo lo illumina e un tuono rimbomba nel vicolo, e nel mio petto.
Le piccole finestre sono sparse apparentemente senza schema. La luce di un’insegna al neon si riflette lungo le lamiere bagnate del tetto, rivelando ogni particolare: le onde del metallo, i suoi bordi taglienti, i piccoli fiumiciattoli d’acqua che corrono inesorabili verso i gocciolatoi. Il riverbero di luce sfiora anche i mattoni dei piani più alti e rivela la loro superficie scabra.
Una cisterna d’acqua sovrasta la costruzione e mi osserva silenziosamente. Mi sembra di vedere la sagoma del tuo volto nel suo profilo contro il cielo. Riesco a vedere il tuo naso combattere per uscire allo scoperto, agitarsi al di sotto di quella superficie di metallo per liberarsi, finché non ti vedo. Le tue guance sono di metallo. La tua pelle. Oh, la tua pelle non è liscia, ma di mattoni illuminati dal neon: piena di cicatrici, graffiata, bagnata, ma bellissima. I miei polpastrelli sfiorano timidamente la tua barba, impauriti, ma quel contatto è sufficiente per trovare sollievo e mi lascio andare. Rilasso i muscoli irrigiditi, lascio cadere le braccia lungo i fianchi e mi arrendo. La pioggia è i tuoi capelli e i tuoi capelli sono acqua. Il volto prende finalmente forma. Cerco i tuoi occhi, annaspando, ma sono nascosti dall’ombra. Mi alzo sulle punte dei piedi nel tentativo di vederli, ma il buio si è fatto più grande.
Basterebbe una sola parola per ricreare la tua presenza, ma non la dico.

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