Mio marito mi ama tanto e da sempre mi tradisce. Esattamente da venticinque anni, cioè da quando l’ho conosciuto e sono diventata la sua amante.
Ogni volta che scopro uno dei suoi tradimenti, ho bisogno di ripetermi come un mantra che i suoi amorazzi non hanno il potere di ridurre a pezzi il nostro amore, al contrario lo rinforzano. Inghiottisco le particelle ipotetiche dei se, che mi risalgono in gola dal fondo delle viscere come singhiozzi repressi di un bimbominkia dell’asilo Mariuccia, se… mi amas-se, se… mi desideras-se, se… non fos-se così, se… mi consideras-se, se… riconosces-se, se…, se…, se…
Ne abbiamo parlato innumerevoli volte, lui è un teorico ante litteram del poliamore, come ora va di moda chiamarlo, elisir di lunga vita, antidepressivo, anticancerogeno, rinvigorente, energizzante, umanizzante, rassodante, ma è soprattutto un donnaiolo, uno sciupafemmine, un dongiovanni, un seduttore, un casanova, un predatore, un coglionazzo, come lo definisco io, quando sono in vena di scherzare.
Non diversamente dalle relazioni amicali o familiari, le plurirelazioni amorose convivono senza escludersi l’un l’altra, anzi alimentano la vitalità, attivano energia, rallegrano, aumentano l’autostima, diminuiscono lo stress, ringiovaniscono. Come il bigotto non transige sul dovere della fedeltà, mio marito non scende a patti sulla necessità dell’infedeltà. Ne fa una questione di principio e di sopravvivenza.
Non c’è nulla in me che non vada. Non sono meno bella, né meno colta, o meno intelligente, meno interessante, meno sexy, meno divertente di una qualunque altra femmina del pianeta, no, rasento addirittura la perfezione, sono piena di grazia, splendo come il sole.
Mio marito mi ama tanto per come sono, due più due non fa quattro, sono come lui mi vuole, mi resta al fianco, non mi abbandona come Teseo sull’isola di Nasso, piuttosto come Dioniso mi prende in sposa, siamo uniti da un patto di sangue, fino all’ultimo sangue, per sempre, ci completiamo, ying e yang, semplicemente tra me e le altre, me lo ripeto ogni volta, non è una gara, sono prima inter pares, proprio come Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto.
Io sono una costumista, lui è uno sceneggiatore, tutt’e due di successo. Condividiamo lo stesso mondo, frequentiamo gli stessi giri, lavoriamo a volte sul medesimo set cinematografico, scorrendo insieme nei titoli di coda.
Siamo come Paul Sartre e Simone De Beauvoir, Alberto Moravia e Elsa Morante, Dora Maar e Pablo Picasso, Frida Khalo e Diego Rivera, Giulietta Masina e Federico Fellini, Anita e Garibaldi, Eco e Narciso, una coppia affiatata, irriducibile, indivisibile.
Quando due artisti si amano è un connubio perfetto, se non c’è sopraffazione, né subalternità, o manipolazione, l’arte sublima l’amore, la collaborazione è densa, vitale, prolifica, l’uno attiva l’altro, ci si nutre a vicenda.
Per il compleanno dei miei cinquant’anni, mio marito, mi ha regalato un catalogo di una mostra su Frida Khalo, artista che mi attrae e mi respinge allo stesso tempo. Ho sfogliato rapidamente il volume, catturata dai volti della coppia, la colomba e l’elefante (come erano soprannominati per via delle diverse stazze), disseminati come santini nella produzione artistica della Khalo. Nella prefazione, uno stralcio di una delle tante lettere a Diego Rivera, mi ha colpito come una stilettata al cuore. – Perché dovrei essere così sciocca e permalosa da non capire che tutte queste lettere, le avventure con donne, insegnanti di “inglese”, modelle gitane, assistenti di “buona volontà”, allieve interessate all’“arte della pittura” e inviate plenipotenziarie da luoghi lontani, rappresentano soltanto dei flirt?
Al fondo tu e io ci amiamo profondamente e per questo siamo in grado di sopportare innumerevoli avventure, colpi alle porte, imprecazioni, insulti, reclami internazionali, e ci ameremo per sempre. Credo che dipenda dal fatto che sono un tantino stupida… – tubava la colomba innamorata.
Devo smettere anch’io di comportarmi come una bambina suscettibile e ombrosa, ho sospirato, prima di riprendere a volteggiare tra gli ospiti e raggiungere in volo il mio amore.
Nei giorni seguenti al mio compleanno sono tornata tante volte a sfogliare il catalogo. Ad attrarmi sono gli autoritratti di Frida, concentrati di forza espressiva e carica emotiva che rimandano così tanto all’iconografia tradizionale dell’Ecce homo. Frida è l’icona dell’Ecce femina. In un autoritratto porta al collo la corona di spine, in un altro, quello con il volto del marito raffigurato sopra quelle famose sopracciglia ad ali di rondine, le guance arrossate sono rigate da lacrime. Frida espone il proprio corpo flagellato, si autoconsegna al popolo (o è Diego Rivera, il bastardo, a spingerla da dietro?), assetato e affamato come sempre. Solo una lacrima è scivolata sulla pagina.
Ogni qual volta becco mio marito sdilinquirsi con una delle sue amanti malmaritate, aggiorno il mio profilo Facebook e pubblico il mio selfie in primo piano. Guardo in faccia il fedifrago e la sua femmina di turno, imperturbabile, altera. Ciò che non mi uccide, mi rende più forte. Non sanguino, non ho le mani legate, non indosso la corona di spine come Frida, né stringo in pugno un bastone al posto dello scettro. Semplicemente mi mostro nella mia regalità severa. Ci sono, eccomi, vi vedo, voi mi vedete? (E tu, mio amore, marito mio, guardami, sono la tua colombella, amami un poco).
Il catalogo con in copertina Frida incoronata di nastri e fiori multicolori è lì ad attendermi, giorno dopo giorno. Ho piegato la pagina in un orecchio, per non perdere il segno e ritrovare al primo colpo Diego y yo. Sono attratta da questo piccolo quadro delle dimensioni di 30×22 cm, dipinto nel 1949, anno in cui Diego aveva perso la testa per María de los Ángeles Félix, attrice delle più note del cinema messicano. Non è propriamente un autoritratto, ma è un doppio ritratto, il volto di lei in primo piano contiene quello di lui, come fossero due matrioske, uno dentro l’altro. Diego con un terzo occhio, al centro della fronte di Frida. È chiaro che l’elefante è costantemente nei suoi pensieri, nonostante il bestione non faccia che tradirla.
Ma come diavolo fai a sedurre così tante donne se sei un così brutto figlio di puttana? – interrogava il marito dal letto d’ospedale la colomba innamorata.
La mia lacrima non ha lasciato traccia sulla pagina. Si è asciugata ed è svanita, perfettamente.
Gesù, quanto sei bella! – soffia mio marito quando si accende di desiderio per me. Bramo i suoi occhi scuri che guizzano come formiche sul mio corpo nudo. Adoro le sue labbra serrate come quello di un luccio nello sforzo dell’amplesso. Lo amo e lo perdono anche quando si scosta da me, dopo l’orgasmo. Respiro, lo guardo e sorrido. L’inganno, si sa, è la regola quando c’è di mezzo il sesso.
Gesù! – avrà barrito l’elefante alla vista di Diego y yo. La Khalo non è generosa con sé stessa in questo autoritratto. Assomiglia a una donna primate, irsuta, scarmigliata, scimmiesca. Niente a che vedere con la soavità di una bianca colomba, piuttosto una brutta Maddalena piangente. Le donne sono macchine per soffrire – ha dichiarato Pablo Picasso. Quel maiale di Diego che non credeva in Dio, ma in Picasso sì, avrà di certo condiviso la ferocia del maestro.
Lo so che appena mi gira le spalle contatta una delle sue amichette. Dirà di me che sono una specie di invalida. Tutte le mogli dei mariti traditori sono invalide, a quanto pare. Deve essere perché la maggior parte di loro, per ripicca, evita il sesso. D’accordo, esci – gli dico – lo so tanto quello che fai, ma rispondimi al telefono e non preoccuparti di svegliarmi per dirmi che sei arrivato. Buonanotte, amore.
Ormai ho talmente impresso l’autoritratto Diego y yo da non aver più bisogno di aprire il catalogo alla pagina con l’orecchio. Mi pare di portare sulla fronte, in mezzo alle sopracciglia, il ritratto della Khalo, che a sua volta ha tatuato sulla fronte Diego Rivera, che a sua volta ha inciso nel mezzo della fronte un terzo occhio. Siamo alla fiera dell’est. È con il terzo occhio spalancato di Rivera che mi affretto come una innamorata a raggiungere il catalogo ed a consultarlo, ancora una volta, neanche fosse l’I Ching. È allora, finalmente, che noto l’orecchio di Frida. Fino a quel momento l’avevo guardata solo negli occhi e mi era sfuggita l’enormità di quell’orecchio destro in bella mostra. Frida ha il volto orientato a sinistra e esibisce il suo orecchio destro, mentre il sinistro è completamente nascosto alla vista. Diego, al contrario, ha il volto orientato a destra e mostra l’orecchio opposto a quello di Frida. Tutt’e due mi osservano con un’espressione imbronciata, lo sguardo severo e le labbra serrate, come oracoli da interpretare. Capisco d’un tratto che l’elefante è tutt’uno con la colomba, mio marito è tutt’uno con me, ying e yang, indivisibili, indissolubili, per sempre. Come un quadro vivente. Perfetto.