La marionetta

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Illustrazione di Agrin Amedì
Non controllo più il mio corpo. Sto resistendo in equilibrio in una posa innaturale, la gamba sinistra protesa in avanti, scossa da tremori. Il busto mi si sta torcendo verso destra. Oppongo resistenza, ma sto per cedere. Se il corpo reagisce ai pensieri, non darglieli. Hai sempre creduto che la meditazione fosse una stronzata: è il momento di ricredersi… Andrea Zappalaglio s’inabissa in una mente dalle tinte orrorifiche.

Non controllo più il mio corpo. Sto resistendo in equilibrio in una posa innaturale, la gamba sinistra protesa in avanti, scossa da tremori. Il busto mi si sta torcendo verso destra. Oppongo resistenza, ma sto per cedere.
Se il corpo reagisce ai pensieri, non darglieliHai sempre creduto che la meditazione fosse una stronzata… è il momento di ricredersi. Tenendo i denti stretti cerco di rilassare la mente e, forse aiutato dalla disperazione, ci riesco. Mi sento quasi uscire da me stesso e il dolore lancinante alla testa si attenua fino a svanire. Crollo a peso morto, supino sul terreno, come una marionetta senza più burattinaio. È come se non fossi più qui e il mio corpo si stesse gradualmente spegnendo. Sta funzionando. Immaginati una porta e chiamala ‘la porta dei ricordi’. La vedi? Adesso aprila.

Vedo me stesso. Sto vagando tra gli arbusti. Passo dopo passo, mi guardo attorno ammirando la bellezza del bosco. Sul terreno sono stampate le orme di qualche animale. Con il cellulare scatto una foto a dei narcisi selvatici. Giro lo sguardo verso destra per salutare la vecchia pazza che sta camminando avanti e indietro appena fuori dalla sua baracca. Sta bofonchiando tra sé e sé delle parole senza senso e non ricambia il saluto. Ma improvvisamente si ferma, sgrana gli occhi, e comincia una nuova litania, più veloce e più sconclusionata di prima. È terrorizzata. È terrorizzata perché c’è qualcosa davanti a me. Poi la vedo, per una lunghissima frazione di secondo. È una sagoma nera. Ha la forma umanoide ma la consistenza di un’ombra o di una nuvola di fumo. Galleggia a qualche centimetro da terra, fissandomi con due occhi enormi, cavi e inespressivi. Senza emettere alcun suono, si muove. Comincia a corre verso di me a velocità impossibile e scompare tra le mie membra. Non avverto nessun dolore, ma la vista si annebbia. Un’improvvisa folata di vento è l’ultima cosa che riesco a percepire prima di perdere il controllo del mio corpo.
Sto perdendo il contatto con i miei ricordi. Ma adesso, almeno, ho un obiettivo. Il mio viaggio astrale si conclude con un pensiero nitido, per quanto patetico: Ti farò uscire dal mio corpo, figlio di puttana.

Mi sento stordito, ancora non del tutto cosciente, e intravedo qualcosa muoversi nella boscaglia. Qualcosa che non mi aspettavo di vedere ma che probabilmente conosco meglio dell’ombra che si è impadronita di me. Il fruscio si fa sempre più forte. Infine, probabilmente attirata dal rumore, esce allo scoperto un’orsa di medie dimensioni. È a pochi metri da me. Non è sola. Dietro di lei, in fila, la seguono tre cuccioli.
La mano comincia di nuovo a muoversi. L’ombra vuole essere nutrita, lo so. Ma prima di tornare succube del mio parassita, l’istinto mi suggerisce un’idea. Qualcosa di folle, ma non ho di meglio in questo momento. Prima di perdere di nuovo il controllo riesco a prendere una grossa pietra e la scaglio contro uno dei cuccioli. Lo centro in pieno. L’animale emette un acuto bramito di dolore. La madre ringhia, e scatta verso di me.
Per puro istinto, le gambe mi si attivano per scappare. Ma io, con tutta la forza mentale che mi rimane, oppongo resistenza. Sto strizzando gli occhi dallo sforzo, e così non vedo la zampa dell’animale che mi colpisce spalla lacerandomi la carne con i suoi artigli. Vengo scagliato a terra, quasi rimbalzando sul terreno. I piedi si muovono da soli scivolando freneticamente sull’erba umida mentre le mani, inzuppate di sangue, non riescono ad aggrapparsi a nulla.
La zampa dell’animale si abbatte di nuovo su di me, mozzandomi il respiro. Istintivamente spingo in avanti un ginocchio. Inspiro. L’arto si muove proprio nel modo che avevo desiderato. Alzo gli occhi e la vedo di nuovo. L’ombra è uscita. È lì, con i grandi occhi vuoti fissi su di me. Lo so, figlio di puttana ho capito che non vuoi restare in un corpo che sta per morire. Prima di riuscire a completare il pensiero l’essere è già sparito tra gli alberi.
Una scarica di adrenalina mi attraversa. Qualcosa è cambiato, e non percepisco più né il dolore né il sangue che esce dalle mie ferite. Forse è questo che si prova quando si è agli sgoccioli. Non ho più fiato ma, non so come, mi alzo di scatto e comincio a correre verso la baracca della vecchia pazza. La raggiungo ed entro. Mi volto per sbattere la porta in faccia all’orsa – come se servisse a qualcosa. E mi accorgo che non ce n’è alcun bisogno: l’animale ha smesso di inseguirmi per tornare dai suoi cuccioli spaventati.

Ora, percepisco solo silenzio. Il pavimento della baracca è cosparso di ciò che resta della vecchia pazza, ma sono troppo esanime per provare ribrezzo per la scena che ho davanti agli occhi. Cado sulle ginocchia in una pozzanghera di liquami. Con il cellulare riesco a lanciare un SOS, comunicando la mia posizione. Dirò che la vecchia è stata assalita da un orso e che io ho cercato di impedirlo. Probabilmente non mi crederanno. Speriamo che nessun soccorritore sia vittima di…  Sto perdendo i sensi. Ancora.

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