Notturno

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Illustrazione di Agrin Amedì
L'aria fredda della notte penetra forte nelle narici e si insinua sottilmente tra le labbra screpolate. Porti una mano alla bocca per proteggerle, non perché l'aria sia fastidiosa, anzi, ti fa pensare a una carezza invisibile. La carezza di una donna che ti piace, con le mani morbide ma fredde. Sorridi appena e continui a camminare… Stefania Fazza percorre una vecchia strada sotto un vento indecifrabile e pungente.

L’aria fredda della notte penetra forte nelle narici e si insinua sottilmente tra le labbra screpolate. Porti una mano alla bocca per proteggerle, non perché l’aria sia fastidiosa, anzi, ti fa pensare a una carezza invisibile. La carezza di una donna che ti piace, con le mani morbide ma fredde. Sorridi appena e continui a camminare. Ma quanto tempo era che non camminavi così, di notte, a piedi? Ti sorprendi a godere di quel tragitto e improvvisamente ti senti forte e coraggioso come Charles Bronson nelle metropoli degli anni settanta; stupidamente, orgoglioso. Poi la foschia si fa più fitta, si scontra grossa e umida sulla tua faccia e un odore sempre più acre ti si allarga fin dentro ai polmoni. Smog, nebbia, asfalto bagnato, legno marcio, notte… Una mescolanza che riconosci, che ti appartiene. Sei figlio di questa città di provincia, ci hai sempre vissuto, ma a pungerti di più è il ricordo delle sere d’inverno quando da ragazzino correvi verso la stazione, come stasera. Allora eri pieno di emozione, di agitazione, di speranza. Se chiudi gli occhi vedi i tuoi piedi veloci nelle converse blu, puoi sentire il tuo respiro sottile in quell’euforica attesa. Adesso invece sei tranquillo, e di colpo la tua immagine di allora svanisce. Ma sì, forse era meglio chiamare un taxi che farsela tutta a piedi, questo sì, ma è un pensiero ragionevole che ti sfiora soltanto appena. Intanto il cuore ha improvvisamente accelerato il suo battito.
Certo, ovvio, mi sono stufato di camminare continui a ripeterti, oppure è il piccolo Nicky che è saltato fuori da dentro che ti fa tremare? Istintivamente ti stringi nel cappotto, ricacci via quei brividi, è solo il freddo, cazzo, perché il cappotto è sempre troppo leggero rispetto al clima di gennaio. Sempre così. Dai, ma diciamo che stasera hai preso la prima cosa che ti è capitata appesa all’ingresso di casa. Eri troppo stanco e distratto: la tv col volume alto – ma di solito la metti di sottofondo, boh – e il telefono e la lavastoviglie e poi, poi corri giù…

Ancora mezzo isolato e c’è la stazione. Manca poco. Puoi contare le auto che ci sono in giro, sono poche. È una notte strana questa, lo avevi già notato, e davvero non ti spieghi come mai. La casualità è inspiegabile. Sì, banale osservazione, ma se ci pensi bene anche dentro alla casualità c’è uno strano ordine, come un’impellenza che sgorga fuori, necessaria. E forse era necessaria anche questa avventura notturna? Perché è capitata? Perché non hai preso un taxi? La realtà è che il disagio dei ricordi ha finito per disturbarti come una radio che suona della bella musica e che di colpo perde la frequenza. Eppure, cosa sono? Solo ricordi, vita passata e trapassata che non ti appartiene più. Non sei più quel ragazzino ansioso, sei un uomo pieno di impegni, ormai. Domattina sveglia presto, devi passare subito in cantiere, poi hai un appuntamento con due coppie di acquirenti e alle 12 devi essere dal notaio. Nulla è lasciato al caso, se possibile, il lavoro è lavoro, è ordine, organizzazione. Ma perché adesso la tua vita di sempre ti sembra opaca, lontana come un’eco, mentre invece quei vecchi frammenti restano fervidi nella tua testa rimbalzando come allucinazioni? Solo perché stai semplicemente andando alla stazione a piedi come facevi allora?
Scuoti la testa come se potessi svuotare tutto con quel gesto, spegnere le sensazioni, congelare quel tempo e riportarlo nell’angolo remoto della mente in cui era stato finora.
Speriamo che il treno sia in orario. Controlli l’ora sul cellulare e poi dai uno sguardo sull’applicazione. Pare di sì.
Attraversi quasi saltellando la strada che ti separa dall’ingresso illuminato della stazione con le vetrate in stile liberty, la forte luce gialla del neon ti infastidisce gli occhi ormai addomesticati al buio della strada.
L’altoparlante gracchia “Intercity in arrivo al binario 3…”
Scendi di corsa le scale di cemento vecchie e sporche, ma risalendo verso la banchina rallenti, ti investe una zaffata d’aria corrente piena di catrame e di ferro, ti ripari le orecchie col bavero del cappotto, finché il vento non passa, mentre invece quell’odore no, non passa, ti ristagna dentro, come fa una vecchia ferita dolente. Forse è colpa dell’olio di catrame che resta dentro le narici o dell’aria ferrosa che ti nausea come il sapore in bocca del sangue, ed ecco che di nuovo l’eccitazione del piccolo Nicky ti risuona dentro – e non sei più tanto sicuro di quello che stai facendo, di chi stai aspettando, del giorno e dell’orario. Sei fermo come un blocco di marmo, i piedi radicati con le radici nel terreno, non puoi fare altrimenti perché non sei più certo di nulla. Prendi la testa tra le mani per bloccare la nausea che ti attraversa come una lama.
Quando riapri gli occhi pochi istanti dopo anche il mondo intorno a te sembra immobile ed esiste solo quella vecchia stazione, quella puzza di aria e di treni che stridono sui binari con violenza.
Eccoti, ti vedo e ti vedi anche tu, da dietro una colonna della pensilina che aspettavi quasi tutti i giorni la frenata del treno, sempre allo stesso orario, con paura e trepidazione, la frenata era sempre preceduta da un annuncio seguito dal cigolio dei freni. Poi ti affacciavi a guardare i passeggeri scendere, uno per uno finché, sempre dopo quattro o cinque persone, scendeva anche lui: distinto, silenzioso, composto, con un impermeabile grigio indosso o piegato sul braccio; abito blu sartoriale, elegante, il viso e la testa riparati dal cappello. Tu lo avresti riconosciuto tra mille vestiti uguali. Così lo osservavi allontanarsi verso il parcheggio della stazione, finché la visuale te lo permetteva, finché la figura si faceva più sfocata e confusa, finché la sua immagine non fosse stata completamente coperta dagli altri viaggiatori. Poi fantasticavi e lo immaginavi tornare a casa, svestirsi e cenare e fare le cose che facevi anche tu e dire le stesse cose che dicevi tu. Soprattutto speravi che un giorno ti vedesse su quella banchina, anche se eri lontano, che ti riconoscesse come facevi tu con lui e che si aprisse in un abbraccio inaspettato e scomposto, stavolta. Purtroppo non sei mai stato accontentato in questo, in questa maledetta stazione che puzza di merda.
Ora basta, adesso ti sei innervosito sul serio, vuoi andare via, che senso ha stare lì di notte ad aspettare?
La stazione appare sempre più buia e desolata, i treni in arrivo sono sempre meno e ti accorgi di essere circondato per un interminabile minuto da un silenzio assoluto.
La foschia sfuma i contorni degli oggetti intorno: la panchina di un metallo grigio scuro diventa quasi nera, col profilo stinto, indefinito; i lampioni più lontani illuminano il buio, fiochi come candele che si stanno spegnendo, ma riescono ancora a illuminare una figura, nel vuoto spettrale della stazione, dai contorni stranamente definiti. È quella figura familiare, quell’uomo che hai aspettato per interminabili serate, ma non riesci a capire se viene verso di te o se si allontana: la sua immagine è fissa, immobile, come una macchia di inchiostro davanti agli occhi che non va più via.
Ma cosa ti importa dove si dirige un’ombra?
Ti stringi nel cappotto, lo abbottoni meglio, bello aderente al corpo e torni indietro, ripercorri il tunnel del sottopassaggio buio e umido e quando ti ritrovi nel piazzale davanti alla stazione ti senti più leggero, decisamente più leggero.
La foschia si è alzata, quante ore saranno passate?
Stringi il bavero intorno al collo e riprendi a camminare al tuo ritmo, le ombre svaniscono, la notte improvvisamente si fa più tersa, distesa, intravedi come un chiarore nell’aria e nuovi odori appena percepibili che prima erano sopraffatti dalla nebbia, come quelli degli alberi ai lati della strada, un nuovo odore di resina e foglie mescolato a quello della città.
Una melodia lontana e sussurrata ti entra dentro piano, curioso sollevi lo sguardo verso le finestre dei palazzi sotto cui cammini. Quasi tutto spento, serrato, impossibile che venga da un appartamento, ma sembra che vada a tempo con qualche luminaria intermittente rimasta appesa dalle feste di Natale, un piacevole accompagnamento nella tua camminata solitaria.
Sei anche tu un po’ come quelle lucine abbandonate, finalmente libere di illuminare senza una funzione prestabilita. Finché non farà giorno di nuovo e saranno la ragionevolezza, l’ordine e la scala delle priorità a guidare le tue azioni.

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