Perché far credere ogni volta a mia figlia di comprarle un cane per Natale o per il compleanno, rendendola così un’insicura passiva aggressiva e ledendo nelle fondamenta il nostro rapporto costruito con estrema fatica? Semplicemente perché io odio i cani in modo viscerale. Non ho paura dei cani (come cercava di spiegarmi con dolcezza mia madre); non sono indifferente ai cani (come accadeva a mio padre). Li odio. Non è facile dirlo, ammetterlo ed essere accettato. Ma l’odio come sentimento esiste, che lo si voglia o no. E io odio i cani.
Ma perché continuare a illudere mia figlia? Perché non confessarlo una volta per tutte? Ma che cazzo mi dice il cervello? Il mio psicoterapeuta sorriderebbe dicendo, con la sua voce nasale – imitazione perfetta di Camillo Benso Conte di Cavour –, tronfio del master di quarto livello in psicoterapia quantistica, che nella mia menzogna si nasconde la figura paterna.
«Parlami del rapporto con tuo padre, sei poi riuscito a dirgli: ti voglio bene?»
Bingo! No, figurati… non mi riferisco all’acume e alla geniale intuizione del mio psichiatra – la solita da sempre, insieme alle gocce in più di Levopraid mezz’ora dopo i pasti principali per migliorare la digestione lenta –, ma semplicemente perché “Bingo” era il nome del mio cane. Sì, ho avuto un cane e il suo ricordo mi è tornato in mente come uno schiaffo in faccia. Sembrava un pipistrello con quelle zampette nervose, il mantello nero e il muso come un tartufo maciullato. Bingo era il pipistr… il cane di mio fratello, ma avendolo ricevuto in regalo che aveva appena compiuto quattro anni e io sono più anziano di lui di tre, Bingo era praticamente il cane di famiglia, e in qualche modo anche il mio. Quel bastardino bruttarello, in quattro anni, lo portai a sgambare solo un paio di volte, e la seconda è stata quella fatale.
Eravamo in vacanza nel paesello della mia bisnonna. Lì, al confine tra il Lazio e l’Umbria, a circa mille metri sul livello del mare, si respirava bene e Bingo abbaiava praticamente sempre, forse perché si ossigenava troppo. Inseguiva la coda continuamente e quando era stremato cambiava i ruoli, e la coda iniziava a inseguirlo. Mio padre aveva pensato di utilizzare quella frenetica stereotipia per produrre energia rinnovabile; guardava quel cane e ci vedeva turbìne e poi bollette a quattro zeri con un bel meno davanti. Io guardavo quel cane e ci vedevo un nemico. Mi ringhiava con quella sua occlusione sbilenca e un paio di volte aveva anche tentato di mordermi. Mia madre diceva che il cane sentiva la mia paura mentre io ripetevo che il mio era solo odio, ma lei che è sempre stata pura dentro mi accarezzava la guancia con le sue mani cicciottelle e profumate, sorrideva fino quasi a chiudere gli occhi, e non cambiava comunque un cazzo di niente: io continuavo a odiarlo e lui a odiare me.
Lo portai a fare i suoi bisogni che era un mercoledì. Il tempo non era dei migliori e io sentivo già il cambiamento climatico nelle ossa. Bingo voleva solo fare una pisciatina e la cacchina e io un favore a mia madre. La vescica del cane roditore era minuscola, aveva bevuto parecchio, il suo intestino era spastico e la gita fuori porta si prospettava una toccata e fuga. Nel tragitto rischiò di strozzarsi un paio di volte ingoiando ghiande, convinto di avere l’esofago di un cinghiale. Lo ammetto, lo avrei lasciato soffocare. Ma a ogni modo, è riuscito, tossicchiando, a rigettare quella frutta secca.
«Cane! Dobbiamo rientrare» dissi io.
Neanche abbaiò, continuò a saltellare, ma come fosse un bambino denutrito che vorrebbe imitare un mostriciattolo con poca fantasia.
«Cane! Sta per cominciare a piovere!» dissi con un tono più perentorio.
Niente, Bingo non voleva saperne di fare i suoi bisogni.
«Che devi fare, cane? Cachi o no?»
Nessun feedback. Era prevedibile che accadesse. A ruoli invertiti anche io non avrei fatto lo stronzo come non lo stava facendo lui, facendo esattamente lo stronzo come stava facendo lui. Allora decisi di avvicinarmi per attaccargli il guinzaglio al collare ma, proprio quando mi piegai su di lui, assaltò la mia caviglia. Quei dentini che affollavano la sua bocca troppo piccola strinsero forte sul mio polpaccio e io emisi un urlo di dolore. Bingo emetteva un verso simile al cigolio di una porta mai oliata. Tentai di tirarlo via ma non ci sarei riuscito senza staccare anche una libbra di carne. Il sistema nervoso centrale prese allora il sopravvento su tutto il resto e da quel momento in poi subentrò il pilota automatico. Iniziai a muovere la gamba, sempre più rapidamente cercando di scrollarmelo di dosso, ma più cercavo di staccarlo più lui penetrava la mia carne, emettendo dei versi che sembravano un gnegnegne, ma senza le vocali ad addolcire quel latrato.
«Ma porca la troia! Ma guarda ‘sto cazzo…» e la rabbia di quegli improperi, partendo dal mio trigemino, passando attraverso il nervo vago, arrivando fino a quello sciatico, scatenarono una serie ravvicinata di sussulti alla gamba, permettendomi di piegare il ginocchio in maniera quasi innaturale e persino inversa, come un burattino, che il cane schizzò via velocissimo emettendo un verso ridicolo e acuto, un “iiiii”, che lo avrebbe accompagnato come la scia di una cometa, lontano, lontano, lontano, lontanissimo, come un sospirato desiderio nella notte di San Lorenzo…
Nel bel mezzo di quella traiettoria balisticamente perfetta c’era una quercia secolare larga il doppio del dorso di Mike Tyson, e piantata a terra esattamente come Mike Tyson, dove andò a stamparsi con un sonoro “puff” – ma praticamente senza le f, solo un accenno, che si devono leggere sì, ma praticamente senza le due stanghettine. Una specie di Pu(ff).
Mi avvicinai con la stessa flemma di un coroner a qualche giorno dalla pensione che deve solo confermare il decesso.
Bingo era morto, stecchito. Era incollato di schiena all’albero, con le zampe divaricate; assomigliava vagamente a una di quelle locandine che si piazzano su ogni dove quando scompare un cane. Aveva il muso di profilo, straziato in una smorfia schifata, orrenda, chiaramente involontaria, dovuta alla posizione innaturale che aveva assunto durante lo schianto.
Cadde a terra qualche istante dopo, di muso, tra le foglie, con le zampe quasi completamente aperte che sembrava proprio un pipistrello.
Improvvisamente un suono; più che altro un rumore: umido, guasto, d’annunziano, paludoso. Assomigliava alle bolle d’aria che risalgono su da uno stagno. E così Bingo, alla fine, cacò.
Saltellando riuscii a tornare verso casa. Raccontai tutto, esattamente come era accaduto. Mio padre vide il suo impianto di turbine spegnersi. A mio fratello disperato, con gli occhi gonfi di lacrime e tristezza, mia madre disse, accarezzandogli la guancia bagnata con le sue mani profumate e grassottelle: «Bingo è volato in cielo». Io, tamponando la ferita, commentai a mezza bocca: «Se non fosse stato per quella quercia…».