Ci mancava solo la pioggia. Per un po’ provo a schivarle, le pozzanghere, per non rovinare i tacchi a spillo e la vernice nera. Io che non le metto mai, le scarpe con il tacco.
Pensavo che oggi ne valessero il sacrificio: chissà, se mi vede più elegante, più alta, più matura, si ricorderà di me.
Mi sono messa i tacchi come per i grandi inizi e invece scopro che vanno bene anche per i finali rapidi e meschini.
«Non c’è bisogno di tante spiegazioni. Siamo grandi, no?» mi ha detto mentre controllava sul telefono l’orario del volo. La sua valigia era già pronta e aspettava vicino alla sedia del bistrot.
Anch’io me ne stavo buona e non dicevo niente. Siamo grandi, e a quanto pare è questo che fanno i grandi: accettano con eleganza.
Mi sono fissata per un attimo le scarpe, mentre i tacchi sfregavano nella ghiaia e la polvere appannava il nero della vernice. Ho riguardato lui, che si stava accendendo una sigaretta come a dire: non c’è altro da aggiungere. Mi ha sorriso, era proprio in pace con sé stesso.
Poi ho visto quel pensiero che gli ha attraversato gli occhi. Stavo per dire qualcosa – per dimostrare che sì, anch’io sono grande – ma mi sono fermata in tempo. Forse ci stava ripensando?
«Sono stato proprio bene, sai? Voglio dire, per una cosa così breve.»
«Ah, grazie». L’ho pure ringraziato. Devo essere proprio grande.
Una folata improvvisa ha fatto volare i menu dai tavolini del bistrot, lui ha agguantato il nostro con un gesto agile e preciso. «Il tempo sta cambiando» mi ha detto mentre spegneva la sigaretta e con la testa ha fatto un cenno ai nuvoloni che sbucavano da dietro le facciate liberty. «Meglio andare» ha aggiunto alzandosi dalla sedia, come se fossi una bambina a cui bisogna mostrare cosa deve fare.
«Già, meglio andare» ho confermato io, ma invece di imitarlo ho guardato il mio bicchiere di vino appena sorseggiato. Il suo, lì accanto, era vuoto già da un pezzo. «Meglio andare» ho ripetuto – questa volta a me stessa – e ho iniziato ad alzarmi anch’io, facendo leva sui braccioli della sedia perché i tacchi non mi tradissero proprio in quel momento.
«Sei fantastica» mi ha detto mentre mi stavo ancora sollevando, e con un’ultima spavalderia mi ha schioccato un bacio sulla guancia.
«Fottiti» ho sussurrato, ma lui era già a dieci passi da me.
Ora è da un po’ che girovago nei giardini attorno al bistrot. Quando sono arrivati i primi goccioloni di pioggia, la ghiaia del sentiero si è trasformata in una trappola di fanghiglia per i miei tacchi. Non ho un ombrello, non ho scarpe comode con me. Ho solo questa pioggia, un ottimo alibi per piangere a viso aperto senza dare nell’occhio, da persona grande.
Mi mancano i portici di Bologna. Sono nella città delle luci, ma tutto quello che vorrei è un riparo e un po’ di penombra.
Provo a zampettare sulle punte, resisto solo pochi passi. Ogni volta che riappoggio i piedi a terra, gli stiletti affondano come aghi nel fango e io barcollo all’indietro, come per una folata di vento troppo forte o per un pericolo schivato per un niente.
Poi ogni precauzione diventa inutile. L’acqua e il fango mi entrano nella scarpa sinistra, approfittano dello spiraglio sotto l’arco del piede e dilagano ovunque. Si infilano tra le dita e ritornano verso il tallone con uno schiocco: una piccola risacca che sogna di essere oceano.
Non resisto al velluto del fango e al tepore della pioggia estiva: prima una e poi l’altra, mi sfilo entrambe le scarpe e affondo i piedi nella pozzanghera. Gli occhi chiusi, rimango dritta e immobile mentre l’argilla colma il vuoto sotto i miei piedi e tutto il Jardin du Luxembourg corre a cercare riparo.
Con una scarpa per mano e il fango alle caviglie, quanto poco grande devo sembrare adesso?