Ho preparato la cena, ho apparecchiato la tavola con una bella tovaglia di lino bianco, con i piatti delle feste, le posate d’argento e i bicchieri di cristallo. Mi ci sono dedicata, perché oggi è il compleanno di Angelo. Compie 18 anni mio figlio. O meglio, non proprio mio figlio, è di Giovanni e Paola. Come pure Viola, la piccola di 10 anni. Vorrei che almeno stasera ci fosse aria di festa in casa. Ho ordinato anche la torta al cioccolato che piace tanto ad Angelo, e ora è in bella mostra sul buffet. È un ragazzo introverso, parla poco, non ha amici. Magari stasera riuscirò a strappargli un sorriso quando spegnerà le 18 candeline, e magari ascolterà il nostro “Tanti auguri a te”.
Mentre tiro fuori dal forno l’arrosto sento Giovanni che rientra a casa, appoggia la sua cartellina sulla sedia dell’ingresso, e come sempre non saluta nessuno. Lo chiamo insieme ai ragazzi e ci sediamo a tavola.
Anche questa sera l’atmosfera in casa è pesante, ferma, immobile. Iniziamo a mangiare, ma subito il sarcastico commento di Giovanni sul compito in classe di Angelo rompe il silenzio: «Anche questa volta ti sei impegnato per non avere neanche la sufficienza! Il tuo cervello ormai è in pausa permanente da tempo. Mi ricorda quello di tua madre». Per sancire il suo disprezzo allunga uno schiaffo sonoro sul volto di Angelo. Il professore di matematica è un suo collega e non ha perso tempo, lo ha informato subito del quattro che ha riservato al compito di suo figlio. Angelo non risponde, non reagisce, guarda fisso davanti a sé, nel nulla. «Giovanni, non ti sembra di esagerare? I risultati di Angelo a scuola non sono così male, è stato un incidente di percorso. Oggi poi è il suo compleanno e non credo…» Giovanni neanche mi fa completare la frase. «Non credi cosa? Perché tu riesci ad avere dei pensieri compiuti? E poi cosa c’entri con l’educazione dei miei figli?» Avrei preferito ricevere uno schiaffone come quello di Angelo piuttosto che ascoltare quest’ultima frase.
All’improvviso mi guardo intorno e mi chiedo cosa ci faccio qui. Mi sento invisibile, mentre vorrei accogliere e ricambiare gli sguardi dei ragazzi, che invece si perdono nel vuoto. Ormai vivo con loro da diversi anni. Quando ho conosciuto Giovanni ero cassiera nel supermercato del quartiere dove lui ogni giorno veniva a fare la spesa. Sapevo che era vedovo e aveva due figli. Io non sono mai stata una bellezza, e anche la mia intelligenza non è particolarmente brillante. Non mi sono mai truccata, mi sono sempre vestita semplicemente, in maniera comoda, perché dell’apparire non mi è mai importato molto. Quando, dunque, Giovanni mi chiese di sposarlo dopo pochi mesi di frequentazione, rimasi sorpresa, mi sentii lusingata e accettai di buon grado anche perché era benestante e io non avrei più lavorato così al supermercato. L’esistenza dei due figli da accudire e aiutare a crescere non solo non mi preoccupava, ma mi piaceva. Avrei avuto uno scopo più nobile nella vita che non quello di dedicarmi soltanto a un uomo, viste le mie esperienze passate tutt’altro che gratificanti. Avrei avuto una famiglia. In realtà in poco tempo mi resi conto che il ruolo che Giovanni aveva previsto per me era poco più di una governante a cui affidare la gestione della casa. I figli erano una sua proprietà, sui quali poteva esercitare qualsiasi azione che ritenesse utile per la loro formazione, incluse violenze fisiche o psicologiche. «Viola, non mangi nulla? Cerca di sforzarti, piccola. Tra poco ci sarà la torta al cioccolato, ma prima almeno qualcosa devi mandare giù.» Mi rivolgo a Viola per riprendermi dall’aggressione di Giovanni. La bambina già al mio arrivo in casa mangiava poco, a scuola non aveva buoni risultati, era oggetto di insulti da parte dei compagni. Da due anni non parla più; non guarda qualcosa in particolare, il suo volto è immobile. Non va più a scuola, per cui può restare solo con me al mattino: mi accompagna a fare la spesa, andiamo al parco. Una vicina di casa ha la madre ammalata di demenza. I dottori le hanno detto di farle ascoltare la musica di Mozart, perché può fare miracoli in questi casi. E allora perché non provarci anche con Viola? Magari prima o poi scatterà un click in quella testolina e tutto tornerà a posto. Ho comprato due CD, e quando noi due siamo in casa c’è sempre di sottofondo la musica di Mozart. Quando Giovanni torna a casa invece spengo il lettore di CD, perché so che non approverebbe mai questa mia iniziativa. E poi non ama la musica, come non ama tutte le cose belle. Angelo si alza e va in cucina a prendere i piattini per la torta, come gli ho chiesto, mentre io accendo le 18 candeline e porto il dolce al suo posto. È tutto pronto, ma, strano, Angelo si attarda in cucina più del convenuto. Lo chiamo alzando appena un po’ la voce; possibile che non abbia trovato quello che serve? Eppure, sono certa di aver lasciato tutto a vista. Eccolo, è ancora tanto pallido povero ragazzo, è stato così mortificato. Lo invito a spegnere le candeline con tutto il fiato che ha in gola, forza ragazzo, forza. Mentre gonfia le sue guance e soffia forte più forte che può, soltanto io canto “Tanti auguri a te…” e seguo il suo sguardo che per la prima volta si ferma su quello del padre e non si sposta da lì. Si dirige verso di lui e si mette dietro alle sue spalle, tira fuori la mano destra e scorgo improvvisamente un lungo coltello da cucina. Con un gesto rapidissimo, istantaneo, imprevedibile, Angelo taglia la gola di suo padre. Ha studiato i movimenti e i tempi giusti per fare un taglio lungo e abbastanza profondo per non lasciare tempo alla vita, lo si vede. È stato bravo questa volta Angelo, perché la testa del padre ora si accascia con violenza sul tavolo, spaccando i piatti delle feste e un bicchiere di cristallo. Un fiotto di sangue rosso si allarga sulla tovaglia bianca di lino. Restiamo immobili e in silenzio. Poi scosto le tende, apro la finestra. C’è bisogno di aria. Faccio partire un CD con la musica di Mozart. Ci sediamo ai nostri soliti posti. I nostri sguardi si incrociano, i nostri occhi ogni tanto si posano sul corpo di Giovanni. Il fermo immagine della casa si è frantumato in mille pezzi, come i piatti e il bicchiere. La vita ha ripreso a scorrere qui, e io con il mio sguardo posso abbracciare i miei ragazzi. Sì, ora sono vivi, e sono miei. Viola mi guarda mentre sgorgano lacrime che allagano i suoi occhi. Finalmente, occhi che mi parlano.