La piccola pasticceria situata sul corso principale, negli anni, era stata trasformata da mia zia materna in una fiorente attività divenuta poi uno dei punti di ritrovo del paese. Fu proprio lì, precisamente nel retrobottega, che mi ritrovarono sdraiato a terra con accanto un barattolo da cinque chili di crema pasticcera fresca completamente vuoto. Ricordo che mi svegliai solo dopo un’intera giornata con degli enormi crampi alla pancia e con il senso del gusto azzerato. Da quel momento in poi ogni cibo che ho masticato è sembrato cartone nella mia bocca.
La mia vita è andata avanti così, inizialmente con ricordi vaghi di tutto ciò che mi piaceva di più mangiare: il coniglietto di cioccolata al latte che mia nonna mi regalava sempre a Pasqua, gli spaghetti al sugo di pomodoro della mamma, la focaccia calda a cinquanta centesimi del forno sul vicolo dietro la scuola, comprata facendo sempre a gara coi compagni a chi fosse capitato il pezzo all’apparenza più grande. In pochi anni, però, tutti i miei ricordi riguardo i sapori si sono dissolti e ora il mio mondo è pieno di colori, di suoni, di odori ma privo di sapori.
I dottori hanno sempre parlato di ageusia, ossia perdita del gusto, di natura traumatica. Nessuna correlazione con l’overdose di crema pasticcera, questo almeno è ciò che dice la scienza.
Dopo quell’incidente in pasticceria ho passato trent’anni a cercare di percepire qualcosa con la mia lingua.
Posso dire di aver dedicato la maggior parte della mia vita alla ricerca spasmodica dei sapori, sperando in un’epifania improvvisa delle mie papille gustative, di un loro risveglio provocato da un sapore nuovo, da un’asprezza accentuata, da un alimento proveniente da paesi lontani.
Cominciai a condire i cibi con diverse spezie, arrivando anche a misture esplosive che facevano rabbrividire e preoccupare chi condivideva con me la tavola. Troppo pepe sulla pasta, cucchiaiate di peperoncino nella minestra, sulle patate al forno miscugli esagerati di rosmarino, salvia, origano e menta ma nulla, la mia lingua era morta.
Sono così passato alle spezie esotiche, girando per i negozi più forniti per trovarne il più possibile. Non ero soddisfatto, perché̀ molte delle spezie che desideravo mancavano all’appello; quindi presi a ordinarle direttamente dall’estero, sperando anche in una qualità̀ migliore. Ho così iniziato a condire i cibi con un’infinità di spezie nuove: aneto, zenzero, anice stellato, cardamomo, coriandolo, cumino e curcuma, fino ad arrivare alle tantissime tipologie di curry che la cucina indiana propone.
Ma la mia lingua continuava a non rispondere agli stimoli e la mia frustrazione cresceva sempre di più.
Non essendo mai stato il tipo che si arrende alle prime difficoltà, ho cambiato strategia. Forse le mie papille non sarebbero state risvegliate da sapori esotici ma da ricette ricercate di alta cucina.
Cominciai a viaggiare da solo allora, perché́ i miei viaggi non erano viaggi di piacere, ma una ricerca spasmodica del mio senso del gusto perduto. Ero io di fronte ai sapori del mondo in un itinerario gastronomico in cerca di tutti i ristoranti blasonati e le degustazioni di vino più costose e importanti. Ho mangiato caviale iraniano, tartufo bianco, ostriche giganti, nidi di rondine, anguille, carne di manzo kobe, bevuto vini pregiati di molti paesi.
Ho assaggiato cibi che il più grande cultore gastronomico al mondo non vede in una vita intera. Ho speso molto denaro, ho speso una vera fortuna, ma non mi ha portato a nulla.
Quest’ultimo anno ho smesso di viaggiare, complice anche il fatto che non potevo diventare povero per il cibo, che oramai non mi donava più sensazioni nemmeno a vederlo o a odorarlo.
Semplicemente ho continuato a sopravvivere nella maniera che il mio tedio mi consentiva: cibi pronti da scaldare al microonde o in scatola.
Poi un giorno l’ho vista, su in piazza, che camminava piano. Incarnato di porcellana, gote rosee, chioma nera, gambe ben tornite fasciate da jeans non troppo attillati. Era talmente candida che, da vicino, potevo scorgere le vene blu sotto la pelle delle mani. Passavano giorni e notti e il desiderio di lei diveniva più vivo, più presente in me. Quella creatura diafana stava risvegliando i miei sensi sopiti solo con la vista della sua bellezza e il sentore del suo profumo. La vita mi stava accogliendo di nuovo a sé dopo tutti quegli anni e sentivo che ero vicino, ero sempre più vicino a ciò che anelavo più di ogni altra cosa, a ciò che avevo perso e mai ritrovato.
Ho aspettato il momento giusto, ho aspettato la sera giusta.
E ora eccola in carne e ossa a casa qui con me finalmente, dopo averla immaginata un sogno dopo l’altro.
È vicina a me e sento l’odore delicato della sua pelle, quasi agrumato, ancora più intenso. Sfioro con le dita le sue labbra socchiuse del colore delle pesche mature. I suoi occhi castani sono fissi su di me, sembrano pieni di meraviglia. Nessuna donna mi ha mai guardato con questi occhi.
La lascio lì, sdraiata sul divano mentre mi rimira con amore. La cena è quasi pronta. Mi avvicino ai fornelli riaccesi dopo tanto tempo per l’occasione.
Mi verso del vino in un calice, con la carne arrosto l’accostamento è quanto meno scontato. Sono certo che a lei piacerà.
Mi sono informato molto prima di procedere ma penso di aver scelto bene: la parte dietro la coscia è la migliore, più grassa e più morbida.
Sul piatto taglio un pezzo, lo infilzo con la forchetta, lo metto in bocca e finalmente arriva. Dopo tutti questi anni ecco l’esplosione del sapore, un sapore mai sentito prima. Quel sentore ferroso sulla lingua mi apre le viscere in un’apoteosi quasi orgasmica. Sento il sapore.
Il sapore del sangue.
Il sapore della sua carne.