Parentesi graffe

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Illustrazione di Agrin Amedì
Gli agenti stavano perdendo la pazienza, le voci si ingrossavano, uno dei due quasi urlava chino sull'uomo sdraiato. E io pensavo alle parentesi graffe. Al loro uso specifico e settoriale. Solo per la musica, la matematica. Niccolò Baccaille muove il tempo e lo spazio alla ricerca di quel qualcosa che ancora sfugge.

Non valeva la pena. E non era affar mio. I due agenti stavano solo facendo il loro lavoro.
Quell’uomo in effetti non poteva star lì sdraiato sul prato fuori dalla stazione. Certo, non dava fastidio a nessuno. Era uno dei soliti senzatetto della stazione, coi vestiti un po’ stracciati e un cartone di vino rovesciato. Non sbraitava e non sembrava ubriaco né molesto. Stava solo sdraiato e i due agenti continuavano a dirgli di andarsene. Forse dopo poco se ne sarebbero andati anche loro.
E io, sinceramente, volevo andarmene dritto a casa, ero stanco dalla giornata al lavoro, del viaggio in treno. Avrei dovuto anche fare la spesa per la cena. Pollo. Insalata. Il dentifricio. Passai lì vicino, con gli altri passeggeri che uscivano dalla stazione, non c’era altro modo. L’uomo sdraiato si stava sistemando un fagotto sotto la nuca. Captai la voce di uno dei due agenti. Tentava un tono informale. Dai. Andiamo. Fai il bravo. Qui non ci puoi stare. Cercai di far finta di niente.
Nel resto del piazzale le schiene degli altri pendolari che si allontanavano ognuno nella sua direzione. Il pollo. Un’insalata. Forse una birra. E mentre stavo per aggirare del tutto lo spiazzo d’erba e quella scena, nell’angolo più esterno e remoto del mio campo visivo si impigliò l’immagine di quell’agente che dava un piccolo calcetto con la punta lucida della scarpa d’ordinanza alla suola consumata della scarpa dell’uomo. Un minuscolo colpetto, come a dire, mi stai a sentire?  Non volevo, ma mi fermai. Il dentifricio, le fette biscottate per domani. Non volevo rovinarmi la serata, ma il mio corpo si fermò. Quel calcetto che avevo appena intravisto, un secondo o un millimetro in più e non l’avrei notato. Provai a pensare alla cena, al pollo, all’insalata, ma non mi venne nessuna fame, per niente. Anzi, una leggera nausea nervosa mi risalì alla gola. Per questo quando provai a chiamare i due agenti quelli non si girarono, forse non avevo emesso alcun suono. Riprovai alzando la voce, che mi uscì strozzata; una cosa come, lo conosco, sta qui tutti i giorni, non fa male a nessuno. Non mi sentivano o mi ignoravano, e il vecchio a terra si rigirò tranquillo sull’altro fianco mentre uno dei due accese la radiolina e se la portò alla bocca sussurrando qualcosa. Potevo ancora andar via. Bastava solo girarsi di nuovo e mettere un piede dietro l’altro, verso casa, verso il supermercato, verso qualsiasi altro posto.
E invece alzai la gamba oltre il piccolo recinto decorativo dell’aiuola, e senza sapere cosa di preciso stessi facendo né cosa avrei fatto una volta dentro, posai un piede sull’erba, poi anche l’altro. Ero entrato.
Appena tre passi mi separavano dal vecchio sdraiato e dagli agenti di spalle. Allungai il primo, nemmeno immaginando dove mi avrebbe portato. Sull’erba, lattine ammaccate, qualche cicca di sigaretta, pagine rattrappite di giornali e margherite singole sparse qua e là. Non capivo cos’è che fosse più fuori posto, se le margherite, le cicche, o le scarpe lucide dei due agenti sul praticello oppure quello spartito musicale ingiallito e mezzo strappato che mi trovai sotto il piede al secondo passo.
Secondo passo. Quei pallini neri tra le cinque linee ripetute, virgolette, pause, crome, quattro quarti, la parola Andante a caratteri gotici, e le parentesi graffe all’inizio di ogni pentagramma.
Gli agenti stavano perdendo la pazienza, le voci si ingrossavano, uno dei due quasi urlava chino sull’uomo sdraiato. E io pensavo alle parentesi graffe. Al loro uso specifico e settoriale. Solo per la musica, la matematica. Tranne i compositori e gli studenti a scuola, nessuno nella quotidianità ha più l’occasione di scrivere quel sinuoso segno grafico da qualche parte. E poi le vidi. Vidi le parentesi graffe perfettamente disegnate sul quaderno di quella mia compagna di classe. Non ricordo perché mi avessero messo nel banco in prima fila con lei, forse per punizione. Nemmeno la conoscevo bene, non la conosceva nessuno quella ragazza. Era troppo alta, collo lungo, carnagione troppo chiara, parlava poco e nessuno le parlava.
C’era il professore alla lavagna che tracciava delle curve bianche per me insensate all’interno di un piano cartesiano. Io provavo a ricopiare una linea ogni tanto sul mio quaderno, e di fianco a me c’era lei che scriveva di continuo, segnava le formule vicino a ogni disegnino e dentro quelle parentesi graffe, poi aggiungeva numeri e lettere che nemmeno il professore aveva scritto. Sembrava come in pace, immersa nei suoi calcoli che non erano quelli del resto della classe. La sua sembrava una pagina di un manuale di testo più che il quaderno di uno studente come tutti noi. C’era quel suo collo lungo e pallido, scoperto dai capelli nerissimi tenuti su in una ciocca dalla quale ne spuntavano altri che lei accompagnava dietro l’orecchio solo sfiorandoli appena. Scriveva e scriveva, mentre io non stavo capendo niente della lezione, come di quasi tutte le altre lezioni di fisica (o forse di matematica?). La contemporaneità. Non capivo la contemporaneità. Perché per calcolare la curva della traiettoria bisognava necessariamente aspettare che anche la curva del tempo o della forza gravitazionale dell’asse dell’astro fosse parallela temporalmente a un’altra vettorialità magnetica… Qualcuno lo chiese al professore, di quella contemporaneità, o forse fui io stesso a chiederlo, e nel momento stesso in cui quella domanda risuonò nella classe, o forse quando uscì a me dalla bocca, mi resi conto che il problema per me era tutto il resto. Gli elementi delle formule, quei gruppi di lettere e mezze parole; a cosa corrispondevano quei numeri? Erano oggetti fisici reali, dimensioni? Pianeti forse? Per me la fisica o la matematica si rivelavano come un totale spazio vuoto e buio con pochissimi punti bianchi sparsi qua e là che erano le poche e fuggevoli nozioni che sapevo. Un vuoto, nero, con qualche minuscolo pallino intermittente di luce. E glielo dissi. Chissà perché, non la conoscevo, qualche volta l’avevo pure presa in giro, sì, così alta, e così pallida. Lo dissi a lei, come cercando di dare un tono serio e professionale a quella che era solo una mia lamentela: «Per me la fisica (o la matematica, veramente questo lo non ricordo) è uno spazio vuoto e buio con pochi puntini bianchi». E lei senza staccare la penna dal foglio e continuando a scrivere una formula lunghissima per cui doveva andare a capo, mi rispose che per lei invece era un cielo tutto bianco e luminoso. Così, un cielo luminoso, mi disse. Poi si sistemò il solito capello nero dietro l’orecchio e si voltò un attimo a guardarmi. Sorrideva, ma gli occhi, neri, erano fermi, seri. E capii, con una specie di spavento sospeso, che non stava scherzando. Un cielo tutto bianco. Ritornò morbida al suo quaderno, il sorriso le si rimarginò senza strappi, e io continuai a guardarla, in attesa di qualche spiegazione o non so di cosa, ma sapevo che dovevo aspettare. Puntò di nuovo la penna sul foglio e disegnò un cerchio al centro della pagina, poi un altro cerchio all’interno e uno ancora più piccolo, tutti perfettamente concentrici e perfettamente rotondi, e prima di arrivare all’impossibile cerchio ultimo e definitivo, in quel silenzio su quel banco, in quel silenzio che ormai era solo nostro o forse solo suo, mi disse, me lo ricordo perfettamente: «Vorrei arrivare a scoprire la singolarità assoluta».
Pochi secondi dopo suonò la campanella.
Al mio terzo passo sull’erba vidi gli agenti che si giravano verso di me.
Tutti in classe ci eravamo alzati stanchi e sollevati di uscire nei corridoi, ma lei rimase seduta a continuare a scrivere sul suo quaderno. Calma, serena. Gli agenti mi osservavano mentre passavo tra loro, quarto, quinto passo, sesto. Anche l’uomo a terra adesso mi guardava. La singolarità assoluta non sapevo cosa fosse, e continuavo a non saperlo, quando lentamente mi chinai sulle ginocchia, mi sedetti sull’erba e infine mi sdraiai. Anch’io. Calmo, sereno.
Era qualcosa di grande da scoprire, il mistero più importante, qualcosa che valeva la pena, ineluttabile, almeno per lei, seduta da sola al centro della classe vuota, e almeno per me, sdraiato in quello spiazzo d’erba davanti la stazione.

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