Oggi sono triste. Sono ricco, bello, biondo… e triste. Sono triste e insonne e vado a comprarmi il tabacco. La tabaccheria di fronte casa mia è aperta a questa triste ora del mattino e io lì mi dirigo, a passi lenti e tristi. In un angolo del marciapiede vedo una donnetta che potrebbe rendermi felice ma poi mi ricordo che sono triste e quando sei triste non hai voglia di pensare alle donnette. Il tabaccaio mi chiede che sigarette voglio. Quelle per persone tristi. Il tabaccaio dice che sul manuale dedicato allo spaccio di sigarette non si trova alcun riferimento alla vendita di sigarette per persone tristi. Tra me e il tabaccaio cala un triste silenzio di constatazione. Il tabaccaio vedendomi triste dice che però qualche giorno fa è passata una signora che aveva tutta l’aria di esser triste e al tabaccaio ha chiesto delle Marlboro rosse quindi se mi va di fidarmi delle sensazioni della signora triste… Io gli domando cosa stia aspettando a vendermi le stesse Marlboro della signora triste. Non vede che sono triste? Nel momento in cui il tabaccaio mi porge il resto mi sembra di vedere in lui un velo di tristezza, allora gli chiedo “ehi, ma sei triste?”. Il tabaccaio risponde che sicuramente non è triste quanto lo sia io o peggio quanto triste era la signora delle Marlboro rosse di qualche giorno prima, però, dice, un po’ triste inizio a sentirmi anche io. Bè sfido io, gli dico con tristezza, sei immerso in un ambiente assai triste, pieno di clienti tristi come me, triste amico mio. Però non intristirti troppo, non è né bello né brutto alla fin fine, è solo, come dire, triste. Fumati delle sigarette contro la tristezza, se arrivi a stare troppo male, oppure fatti una giocata. Lui distoglie lo sguardo, quasi si sentisse accusato di tutta quella tristezza. Non fare così. È veramente triste che tu sia così triste per un po’ di tristezza. Non ricevo risposta. Prendo il triste scontrino posato sullo sporco portamonete della tabaccheria quando mi accorgo di avere accanto a me la donnetta del marciapiede. Anche lei adesso è nella triste fila, in attesa che arrivi il suo turno per comprare qualche cosa di triste. Indossa un completino di velluto color salmone, in tinta con le scarpe rosse dal tacco alto. A dispetto di quel colore vivace, però, il suo aspetto tradisce un ché di triste. È bassotta e mi chiede se io abbia finito. Ma che modi, dico io, non vede che sono triste? A ognuno i suoi tempi, dico bene? Che io dica bene me lo conferma l’occhiata d’intesa del triste tabaccaio. Guadagno l’uscita tenendo in mano la busta con dentro il mio pacchetto di sigarette per persone tristi. In piedi sulla soglia della tabaccheria inalo un paio di litri di triste e fredda aria invernale. Da quel punto riesco ad avere una visione totale del triste edificio in cui abito. Si vede bene la fila di finestre del mio triste appartamento. Quelle con le imposte arrugginite, i gabbiani appollaiati in tristi posture dormienti, i vetri sporchi, i cornicioni sporgenti su cui fino a poco tempo fa era solito passare il tempo mio padre e tutto il resto e mi dico dio mio vivo proprio in un luogo triste. Estraggo una sigaretta dal suo triste involucro e me l’accendo. Quel caldo fumo per gente triste invade i miei tristi polmoni. Ho già iniziato a muovere i primi passi con incedere triste, quando da dietro giunge una voce che mi chiama. Non posso fare a meno di notare sin da subito quanto di triste ci sia nel tono di essa. È la donnetta. Anche lei si sta portando una triste sigaretta alle labbra. Mi ha chiamato, ehi o scusa, insomma quegli intercalari tristi che la nostra triste specie ha codificato per le situazioni tristi come la nostra. Sì che c’è le dico, facendo attenzione a non allontanarmi troppo da un tono triste e lamentoso. Ti vedo un po’ triste mi fa la donnetta, se vuoi un po’ di felicità non hai che da chiedere. Dico io, stiamo scherzando, una volta che mi sveglio triste vado in cerca di felicità? Scusa allora, mi fa lei, è che di solito le persone tristi vengono da me, dicono che sono brava a renderle felici. Tu allora non hai capito proprio un tubo, le dico io. E aggiungo, il che è triste: io sono triste, d’accordo?, pensa quanto triste potrebbe essere se d’un tratto decidessi di andare in cerca di felicità. È come se al ristorante ti servissero il pesce quando sei in vena di carote. E poi, scusami, ma quello che mi dici non rende felici per niente, anzi, a me rende triste il doppio. Dato che lei è più triste di prima per le parole che le ho detto, mi sento in colpa e le chiedo se almeno se la sente di fare quattro passi con me. Passi tristi, s’intende. Vedi, le dico a un certo punto della nostra triste passeggiata, in fondo è molto triste che non riusciamo a pensare ad altro che a toglierci la tristezza. Lei dice che a una cosa così triste non ci aveva mai pensato nemmeno una volta in tutta la sua triste vita, che il suo lavoro consiste proprio nel togliere di mezzo la tristezza alle persone tristi e che se ora le dico che in realtà il suo non è altro che un triste compito a lei non rimane altro da fare che riempirsi di tristezza nel pensare alla sua triste vita. Su via su via, le dico con ironica tristezza cercando di confortarla. Il calpestio dei suoi tacchi e delle mie scarpe fanno un toc toc in grado di evocare solitarie tristezze urbane, quelle che con triste pacatezza avvolgono le ore scivolose delle mattine insonni. Dopo qualche attimo di triste riflessione, lei mi chiede se almeno durante i momenti di tristezza come questi sia concesso prendere per la mano qualcun altro. Io le dico che è certamente concesso, non c’è un codice della tristezza che discorsi, ma di badare bene che non sarà mica questo gesto triste a togliere la tristezza di torno. Lei annuisce con tristezza e manca poco prima che i suoi tristi occhi non inizino a piangere. Sento le sue dita avvolgere con delicatezza la mia triste mano. Sono dita debolucce, di chi ha passato la notte al freddo: dita tristi. Continuiamo nella nostra triste passeggiata immersi in un triste silenzio. A un certo punto mi viene in mente di baciarla ma appena mi avvicino al suo volto non vedo altro che tristezza in formato liquido colarle dagli occhi. Che tristezza povera donna, mi dico. A quanto pare non ci resta altro da fare che andare avanti colmi di tristezza in questa triste vita. Le chiedo allora una delle cose umanamente più tristi al mondo: vuoi un fazzoletto? Lei triste triste mi dice sì grazie molto gentile. Non c’è anima viva per strada, il che è un po’… come dire, triste. Il triste capo della donnetta affonda dentro le pieghe del triste fazzoletto che le ho dato. Si sente un suono strano. Un suono triste. Dopo che si è asciugata le lacrime mi guarda e io le faccio un sorriso che non denota altro che malcelata tristezza. Hai visto? Te l’avevo detto che non sarebbe bastata una stretta di mano per togliere di torno la tristezza. Che constatazione piena di amarezza la mia. Ma il momento è francamente troppo triste per tradire altro che mestizia… intendevo dire tristezza. Lei annuisce triste e tristemente capiamo che è venuto il momento di salutarci. La donnetta si volta indietro, deve tornare al luogo in cui è solita attendere i clienti. Mi ripete che se voglio almeno provare a scacciare la tristezza lei è pur sempre lì all’angolo del marciapiede, ma che, a dir la verità, dopo le mie tristi parole non lo sa nemmeno più lei stessa se sia ancora in grado di farlo. Mantiene lo sguardo basso. Ammette con tristezza che adesso deve pensare a molte cose. È a causa mia se si è sentita triste come mai in vita sua. Io la guardo triste mentre triste si allontana. Adesso che l’ho conosciuta quella donnetta, il rosa salmone del suo completino non mi sembra più una tinta vivace bensì un chiaro sintomo di ostentata euforia, ovvero di profonda tristezza. Prima che scompaia dalla mia vista la chiamo per l’ultima, triste volta. Mi sforzo a dedicarle un abbozzo di sorriso, anche se non è altro che una smorfia di tristezza, e poi, “quel vestito ti sta molto bene”, le dico. Lo sguardo di lei torna a posarsi lentamente sul mio, quindi scivola verso il basso. La donnetta ora si sta guardando le gambe quasi fosse stata tristemente chiamata a ricordarsi di cosa siano coperte in questo freddo mattino invernale. Mi sorride, “grazie” mi dice, e fa una specie di inchino, qualcosa di triste eh, qualcosa tipo malinconica ballerina di danza classica, sollevando i due lembi del vestito con un movimento grazioso delle dita, e al tempo stesso tenendo piegate le gambe incrociate e la testa. Un alito di vento le scompiglia una ciocca di capelli biondi. Lei non batte ciglio, mantiene quell’aria da cigno triste per alcuni secondi poi, come se gli applausi di un pubblico immaginario fossero sulla via del tramonto, scioglie la posizione con delicatezza e piano piano ritorna alla triste postura eretta che mostra a tutti quelli che la incontrano per la prima volta. Lascia passare qualche altro istante rimanendo a occhi chiusi. Tutto ciò che è attorno a noi sembra essersi fermato. È buffo che per un attimo quasi mi dimentichi di essermi svegliato triste. Ma poi, senza degnarmi nemmeno di un triste sguardo, la donnetta si incammina verso l’angolo di strada da dove siamo venuti e tristemente sparisce. Io, in piedi in mezzo alla strada, sono l’unico, tra il triste pubblico immaginario, che ancora applaude. I muri delle case fanno rimbalzare il clap clap che scaturisce dalle mie tristi mani, amplificandolo. Un nugolo di gabbiani si leva dai bidoni della spazzatura e prende il volo spaventato. Che triste cenerentola, mi dico in cuor mio. Quando è trascorso ormai un po’ di tempo da quando lei se ne è andata, anche il mio applauso va scemando, fino a divenire triste silenzio. Rifletto per qualche breve, triste secondo. Che tipetto strano quella donnetta. Tipetto triste, d’accordo. Ma strano. Guardo l’altro capo della strada e assaporo di nuovo la puntura che l’aria gelida provoca ai miei polmoni. Non si odono altro che echi di autobus e camion della nettezza urbana in lontananza. Mi guardo ancora un po’ attorno e finalmente arrivo alla conclusione che in giro non ci sia proprio niente e nessuno a parte me e l’infelice sagoma di un ratto che si precipita verso un’oscura cavità nell’asfalto sgretolato. Che tristezza, penso scuotendo la testa. Muovo qualche passo e, triste e distratto, do un calcio al corpo deformato di una lattina. L’infelice suono di lamiera che capitombola sghemba e triste è la colonna sonora che accompagna la mia triste decisione di rimettermi in cammino. Al di sopra dei tetti la luce va schiarendosi. Nel senso che albeggia tristemente. Infatti la triste luce mattinale si insinua tra le fessure dei palazzi abitati, presumo, da nient’altro che da persone tristi. Mi accendo un’altra di quelle sigarette fatte apposta per gente come me e continuo nella mia triste passeggiata domenicale. Il fumo è caldo e perfettamente in sintonia con la mia tristezza. E io non posso fare altro che tenere le spalle dritte e lo sguardo avanti. Dopotutto, sapevo che si trattava di un giorno triste.