Apro con apprensione l’anta dell’armadio della camera da letto degli ospiti. È l’ultimo posto che mi rimane da controllare, nella speranza di trovare il papillon verde con i pallini beige che da sempre indosso nelle occasioni importanti. Lo considero quasi un heldig sjarm, un portafortuna. E oggi, proprio oggi, non posso uscire senza.
Tra mezz’ora, alle sette in punto, ho appuntamento con Erling Bjornson, che dio lo stramaledica.
Un po’ di soldi, guadagnati chissà come, una fama di esperto, comprata o attribuita chissà da chi, ed eccolo presentarsi come il “massimo collezionista d’arte di Bergen”. Mi ripugna affidare una mia creatura a un tanghero simile, ma ne ho bisogno. Ho bisogno di tornare nel giro. Non produco niente di serio da anni, a parte gli spettacoli indecorosi nei bar dopo la sesta vodka. Per lo meno, niente all’altezza degli anni passati. Così dicono.
Questo passato, che mi pungola e mi infastidisce più dei lampi e delle ombre che incessantemente circolano nei miei occhi, è lo stesso pessimo maggiordomo che mi offre ogni momento un vassoio di peltro con un bicchiere pieno di pastis e dice: «Lo prenda, signore, le farà bene».
Forse è dentro lo scrigno di famiglia, nascosto sotto questa montagna di cravatte mai messe. Perché non ricordo mai dove lo metto? Ecco, è questo? Vedo poco. No, questo è quello blu che mi regalò Tulla, che dio stramaledica anche lei; dopo rivolle anche i soldi indietro.
Se avessi ancora un maggiordomo, un assistente, chiederei a lui di cercare questo dannato papillon. Ma chi chiamo ora? I fantasmi che danzano nel mio umor vitreo. Sono solo e sull’orlo della povertà. Il poco che ho se ne va in alcool e per mantenere questo catafalco di casa, utile solo a ricordare i salamelecchi al grande artista di un tempo: io.
Ed eccolo là, annodato alle bretelle. L’avrò messo lì in un giorno inghiottito dall’oblio proprio per non perderlo, e invece ho impiegato venti minuti a trovarlo. Venti minuti preziosi che mi hanno separato dall’odiato rendez-vous. Ora ho solo dieci minuti per raggiungere il bistrot dove mi attende “il massimo collezionista d’arte”. Finirò di annodare il prezioso papillon mentre esco, è assolutamente vitale che arrivi là in tempo per non fare la figura del rimbambito e dire così addio a quest’ultimo treno.
C’è la fila a prenotare le carrozze, la gente non si riesce a tenerla in casa, ha troppe cose da cui fuggire stando tra quattro mura: una moglie, dieci figli, i propri pensieri.
Meglio. La distanza è poca e farò una passeggiata veloce. Fa bene alla salute e risparmio. Il quadro che ho sottobraccio poi è piccolo e leggero.
Riesco addirittura ad arrivare due minuti in anticipo. Ancora nessuna traccia di Bjornson. Quasi quasi mi siedo mentre lo aspetto. Ho praticamente corso e ora sono stanco e assetato. Un cordiale non ha mai ucciso nessuno.
Il cameriere arriva dopo cinque minuti con la mia ordinazione. Sono ancora solo. Tipico da parte di un personaggio come Bjornson presentarsi in ritardo. L’arroganza di questi nuovi ricchi è pari solo alla loro mania di protagonismo. Vorrà fare un’entrata trionfale al bistrot, mentre compresso nel suo panciotto da milleduecento corone verrà a fare l’elemosina a un vecchio artista finito.
Sono al terzo bicchiere quando comincio a sentir venir meno la pazienza. L’orologio a muro del locale segna le sette e tre quarti, almeno mi sembra, mi sono dovuto alzare per accertarmene.
Tornando a sedermi, ormai piuttosto barcollante, urto la gamba del tavolino e quasi cado faccia a terra, fortuna che ho il mio bastone. Ma il mio quadro cade e probabilmente si è danneggiato. Impreco a voce alta. Mi accorgo allora dell’ilarità che provoco in un individuo seduto al tavolo di fronte al mio. Indossa un abito elegante ma consunto, e la sua faccia tradisce una provenienza popolare. Con il suo naso schiacciato e il suo sorriso senza due denti potrebbe essere un portuale, o un pugilatore. Fatto sta che questo figuro non smette di osservare ogni mio movimento e ridermi in faccia il suo scherno, mentre continua a tracannare il suo vino rosso probabilmente annacquato.
L’alcol ha già fatto avvampare la mia circolazione, eppure me ne sto buono, pensando di avere troppo da perdere nel caso giungesse Bjornson proprio nel mezzo di una mia piazzata.
Ma del massimo collezionista, nemmeno l’ombra.
Dopo il quarto bicchiere di cordiale, per cercare di azzittire l’ansia che aveva cominciato a solleticarmi lo stomaco, sono passato alla vodka. Bianca, pura, come non lo sono mai stati i miei occhi e i miei quadri. Il bistrot comincia allora a ballare un valzer, portando con sé il portuale ridanciano, i camerieri e tutti gli avventori in una danza collettiva, come quelle delle feste di Capodanno. Ma non Bjornson, lui è l’unico a mancare all’appello. L’unico che, a ben vedere, dovrebbe trovarsi lì. Che me ne importa in fondo dei clienti di questo fetido locale, dei camerieri svogliati e di quell’orologio polveroso che ormai segna le otto e mezzo?
Le otto e mezzo, un’ora e mezza di ritardo. Che diavolo pensa di fare questo maledetto parvenu? Pensa forse di affermare, sulle mie spalle malferme, l’ormai ineluttabile predominio del denaro sull’arte, sulla creatività, sullo spirito?
Non sarò certo io lo strumento della sua rivalsa da classe media, della sua vendetta da grasso scolaro angariato pronto a lavare con i soldi tutti gli affronti subiti da bambino.
Mentre mi avventuro in questa lotta di classe mentale, mi accorgo di stare gesticolando da solo, nella foga del mio silenzioso soliloquio. Alzo per un attimo lo sguardo e vedo il mio dirimpettaio sbellicarsi dalle risate e indicare agli altri avventori il mio penoso teatrino.
Ora basta, non posso permettere di recitare la parte dello zimbello di tutti i massimi collezionisti e operai portuali di questo dannato paese! Io non pretendo di essere osannato nei musei polverosi assieme a quei quadri scialbi e imbalsamati di Monet o Degas, ma neanche di essere preso in giro dentro un bar di terz’ordine.
Mi alzo aiutandomi con il bastone e mi dirigo verso il camuso portuale declamando insulti ottocenteschi che io stesso stento a comprendere. La lingua ormai ha perso il contatto con i pensieri, e gli arti con il busto. Quando sto per sollevare il bastone per romperglielo in testa lui, più giovane e sicuramente più allenato di me, mi sferra un pugno in pieno volto.
Trattengo il fiato mentre vedo le nocche dirigersi come proiettili di ossa sul mio naso rubizzo. Poi buio. Poi sento le mie ginocchia cedere, sto svenendo o sto morendo? Faccio per chiederlo al mio antagonista quando vedo che in realtà si sta trasformando nel personaggio di uno dei miei quadri. No, non l’Urlo. Più una figura ritratta ne L’Ansia, con il suo sguardo fisso senza palpebre, quasi da morto vivente. Vorrei chiedergli il perché di tutto questo accanimento della vita nei miei confronti mentre precipito in un baratro di pennellate ora lineari, ora ondulatorie. Perché queste malattie, quegli affetti strappati, la torbidezza della mia vista e dei miei pensieri. Il chiacchiericcio interminabile dentro al mio cranio, i cravattini che non si trovano, i critici d’arte che mi vomitano addosso. Ma vedo che l’uomo, o piuttosto ominide, che mi ha colpito in volto e che dio lo stramaledica, ha ora lasciato il posto a Tulla, la mia Tulla, con indosso ancora la sua veste bianca cadente con cui la ritrassi e dentro cui l’amai. E ha ancora addosso il suo sorriso di scherno mentre continua a sparare e sparare alla mia mano ormai tumefatta. Chissà se esistono critici anche per le questioni amorose? Che direbbero dei miei anni consacrati a una passione tossica, altro pezzo nella mia collezione di dipendenze e attaccamenti a questa vita?
Ormai sono quasi a terra, tra poco sbatterò sul pavimento con triste fragore. Le luci intorno a me hanno assunto la magica rarefazione delle stelle che ho sempre invidiato a Van Gogh. Un colpo di pistola definitivo, colpo di grazia, da parte di Tulla, coincide col tonfo della mia testa sul marmo freddo e immacolato. Mentre sto per svenire, un’ultima figura mi si avvicina, e mi sembra proprio lui, Bjornson, il ritardatario arricchito. Si fa vivo ora, una vita e mezza dopo l’orario di appuntamento e non contento strappa il mio biglietto da visita, buttando i pezzettini di carta sul rivolo di sangue che esce dal mio orecchio…
La vista continua a farsi sempre più sbiadita ora, e intravedo solo a piccoli tratti l’angolo del mio papillon verde, su cui zampillano gocce beige.