Il sospetto che la faccenda la riguardasse personalmente contagiò anche Teresa, un giovedì di luglio di nove anni fa, dopo essere stata licenziata per quei piccoli ponfi rossi sulle caviglie, disposti su file ordinate come braccialetti di perline scarlatte. Era stata accusata di aver portato le pulci nella signorile abitazione dove lavorava come cameriera. Era successo anche l’anno precedente e quello ancora prima: in estate, con la seconda inspiegabile infestazione, arrivò anche il benservito. Quella volta però la padrona di casa la salutò con affetto, regalandole una pezza di mussolina bianca, con cui avrebbe potuto confezionare un minimo di corredo, casomai le cose con Alfredo fossero diventate serie. Teresa ne ricavò una risposta. Una mattina nel cucire una camicetta col tessuto ricevuto in dono, sentì un prurito nel naso e starnutì, in modo simile a tutti gli starnuti che aveva fatto in vita sua. Solo che quella volta sulla stoffa candida trovò tre puntini bruni, somiglianti a semi di lino, ma più piccoli, con minuscole zampette color ruggine. Ebbe un moto di tenerezza per quegli esserini, avrebbe voluto cullarli sul palmo della mano ma, temendo di spaventarli, d’istinto si limitò a sollevare piano la gonna, fino al grembo, affinché le creaturine potessero trovare rifugio e nutrimento sulle sue gambe scoperte. E così fecero, saltellando incerti verso quel nido improvvisato. Teresa sistemò la gonna e, serbando nel cuore la rivelazione e una gioia sconosciuta, proseguì la vita senza dire nulla alla sua famiglia che, del resto, era abituata alle infestazioni regolari dei parassiti, che cessavano solo quando la ragazza andava a servizio.
Dopo l’ultimo licenziamento, le dicerie su Teresa si moltiplicarono, viaggiando alla velocità delle maldicenze. Si diceva che attraesse gli insetti portandoli nelle case, come fosse una maledizione, e la ragazza, mite di carattere e d’aspetto gradevole, a malincuore venne abbandonata da Alfredo, e riuscì a trovare lavoro solo in campagna, presso una fattoria dove di parassiti ce n’era già in abbondanza, tra le erbe alte dei campi e nei ricoveri degli animali. Nel dubbio però il fattore la mise a dormire nel granaio dove, male che andasse, poteva limitare i danni. La ragazza si sistemò sul soppalco, accessibile da una lunga scala a pioli. Il fieno la teneva al caldo nelle fredde notti invernali e al fresco in estate. Di giorno sbrigava le faccende facendo attenzione a coprire le estremità del corpo, ben presto costellate di macchie paonazze che leniva di nascosto strofinandovi foglie di basilico o fiori di lavanda. Aveva anche imparato a resistere al prurito per non infiammare le piccole lesioni, contenta di poter nutrire le sue nuove creature che nel frattempo erano venute al mondo.
La sera, alla luce della luna, Teresa addestrava le pulci più versate, scoprendo che erano esserini intelligenti e socievoli, persino affettuosi. Creava per loro minuscoli, rudimentali attrezzi circensi con fiammiferi, fili di cotone e pezzettini di carta coi quali organizzava piccoli trampolini e reti e sostegni sui quali farle esibire, come aveva visto fare agli acrobati del Circo degli Arditi, la volta che era arrivato in città e lei aveva assistito alle prove, facendo le pulizie prima dello show.
Mise su uno spettacolino per il proprio solitario piacere di impresario, ammaestratore e pubblico, staccando ogni sera l’unico biglietto decorato col disegno del salto mortale della pulce Pandora, una vera star sulla scena. Diede un nome a ogni insettino, imparando a distinguerne caratteristiche fisiche e comportamento.
Allevate in tal modo, le pulci si moltiplicarono dando vita a una vivacissima colonia di dimensioni ragguardevoli, capace di sopravvivere anche nei mesi freddi al riparo del fieno e del corpo tiepido della fanciulla che, all’alba, con un delicato colpetto dell’unghia, allontanava dalla pelle e dagli indumenti decine di insettini prima di cominciare il lavoro. La pacchia terminò quando la ragazza incrociò sulla sua strada il figlio strambo del fattore: un adolescente grasso, molle e stupido che continuava a farsela nei calzoni e a cacciarsi le dita nel naso. Si innamorò all’istante dei languidi occhi grigi di Teresa e della sua figurina svelta, gentile e sfuggente. Una notte d’agosto si insinuò sul soppalco nel fienile solo per il desiderio di vederla dormire. Venne aggredito da un frotta di pulci svegliate nel sonno, eccitate dal sudore di quel ragazzone che dovette sembrare loro un banchetto, succulento e inaspettato. Il ragazzo si spaventò a morte, cominciò ad agitare le braccia in modo scomposto per scacciare le decine di invisibili spilli che nel buio lo aggredivano da ogni dove. Finì per perdere l’equilibrio e cadere giù, rompendosi l’osso del collo, prima che Teresa potesse realizzare cosa stesse accadendo.
La ragazza venne cacciata e il fienile dato alle fiamme per eliminare quella spaventosa infestazione di parassiti, numerosa come non s’era mai visto prima. Per il dolore per lo sterminio delle sue creature, Teresa perse la testa e cominciò a vagare per i campi, senza meta né scopo. Non era stata capace di proteggere quegli esserini e perciò non voleva metterne al mondo altri. Quando sentiva arrivare uno starnuto, nel dubbio di poter generare, chiudeva le narici tra il pollice e l’indice della mano destra e starnutiva lasciandosi implodere. Dopo un po’ di tempo raggiunse un fiume e vi si immerse piano, desiderando perdersi in quelle acque dove nessuno l’avrebbe cercata. Subito avvertì un pizzico familiare alla caviglia e poi un altro e un altro ancora, il cuore le balzò in gola, le guance ripresero colore, aprì gli occhi e vide che attorno a lei si erano avvicinati degli esserini simili alle sue creaturine, ma pallidi e racchiusi in bolle trasparenti grandi quanto i loro corpicini, e la mordicchiavano e lei li lasciava nutrire di sé, rivivendo il ricordo più dolce e struggente della sua intera esistenza. Erano pulci d’acqua e Teresa comprese che non avrebbe potuto trovare un modo né un momento migliore per andare via.