Via Bruno

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Illustrazione di Agrin Amedì
Un cartello a caratteri molto grandi, ristampato più volte e posto in prossimità della scuola dice: VIETATO SOSTARE SU VIA BRUNO ALL’INGRESSO E ALL’USCITA DALLE LEZIONI. Staccato, strappato, ristampato, sempre più grande, ogni volta si riempie di cuoricini, cazzi con gli occhiali da sole, iniziali intrecciate, bestemmie creative…. Pina Porchi va alla ricerca dell’origine di una via che partendo da una scuola porta a nuove consapevolezze.

Un cartello a caratteri molto grandi, ristampato più volte e posto in prossimità della scuola dice: VIETATO SOSTARE SU VIA BRUNO ALL’INGRESSO E ALL’USCITA DALLE LEZIONI. Staccato, strappato, ristampato, sempre più grande, ogni volta si riempie di cuoricini, cazzi con gli occhiali da sole, iniziali intrecciate, bestemmie creative.
Mamma, vado a scuola. Non entrare da via Bruno! …eh? NON ANDARE SU VIA BRUNO! QUEL RAGAZZO RIMASTO IN SEDIA A ROTEL… Seh, ma’, non ti preoccupare, ciao.
Eppure, nonostante tutto, nonostante le percentuali e i precedenti, nonostante le raccomandazioni e le ammonizioni, ogni mattina, alle otto meno venti, loro sono lì.
In settantasei centimetri riescono a trovare la loro magica collocazione zaini, ruote di motorini, bici elettriche, monopattini. Piedi puzzolenti dentro vecchie scarpe All Stars macchiate, calzini bucati, orli dei jeans strappati a mo’ di staffa sotto il tallone.
In settantasei centimetri si riescono comunque a incastrare perfettamente le risate, gli sfottò, i cori, i pianti a dirotto, le ripetizioni di storia dell’ultimo minuto col libro poggiato al muro e Billy Eilish nelle orecchie. C’è spazio abbastanza per incastrarsi e sbaciucchiarsi, nella calca si spera che nessuno veda la mano scivolare giù fino al sedere. Si trova la posizione giusta per truccarsi di nascosto dai genitori, per parlarsi all’orecchio con il fiato che sa di latte e biscotti, o anche solo per appoggiare la testa sulla spalla di un altro e godersi gli ultimi cinque minuti di sonno.
Alle otto meno un quarto, ogni giorno, si creano brulicanti formazioni attorcigliate di braccia e di teste, per guardare tutti insieme l’ultimo video virale sul tablet di qualcuno.
Ogni mattina ci sono almeno tre autobus a sfrecciare a nemmeno cinque centimetri di distanza dalle loro spalle appuntite. Ma ormai ci sono abituati e, senza neanche alzare gli occhi dal cellulare, dal video, dal libro, dagli occhi, dal vuoto, dal sogno, senza neanche farci più caso, si stringono uno sull’altro con gesto automatico, si spalmano sul muro tutti uniti e indistinguibili.
Il sorpasso azzardato del SUV di turno è solo una carezza sullo zainetto rosa, una pacca sugli shorts nuovi, una folata di vento sulla nuca pallida, sul collo brufoloso, e di riflesso, distrattamente, ancora la folla si sposta un poco più a destra o a sinistra, si plasma di qua e di là come un liquido magico, uno sciame di corpi.
Che cos’era l’adolescenza, in fondo,
cosa doveva essere?
Oltre a questo
incontenibile
ingarbugliarsi
incuranti del pericolo?
Qualcuno si farà male,
o forse il destino,
anche oggi,
bucherà l’aria fresca,
a un solo millimetro dalle loro teste.
Qualcuno si farà male, pensa Adele, guardandoli dall’altro lato della strada, rabbrividendo ogni volta che lo specchietto di un’automobile colpisce un gomito, un fianco, una schiena curva sopra la cintura borchiata.
Scuote la testa, sorride. Qualcuno si farà male, ma in fondo che importa?, si infila gli occhiali da sole, le arriva da chissà dove il fotogramma di una corsa disperata in Ciao, in tre, senza casco, in tangenziale, con la grandine, i capelli incollati, le scarpe inzuppate, la ruota del camion schivata per un pelo, le risate, pezzettini di ghiaccio in bocca… Dove stavamo andando?
Probabilmente da nessuna parte.
Adele osserva, dritto davanti a sé, la perfezione della loro goffaggine. Qualsiasi esagerazione, in loro, è tenera ed epica, c’è chi fuma senza aspirare e spalanca la bocca, chi parlando lancia le braccia scoordinate in alto e in basso alla rinfusa, chi si smezza un cornetto facendo un morso io e uno tu.
Adele sarebbe pronta a tirare fuori il portafogli e pagarli, a uno a uno. Prendetevi mio figlio, assorbite mio figlio in uno dei vostri pori, fate a turno a legarvelo alla schiena come i paracadutisti esperti con i novizi. Trovate uno spazio anche per lui nei settantasei centimetri, anche se dovesse tornarmi a casa con la spalla lussata, o senza un braccio. Non farò causa a nessuno: uscirò e andrò a comprare una torta.
Adele sta fumando seduta a un bar, aveva smesso e oggi ha ricominciato, non ha ancora neanche preso un caffè, ha appuntamento alle otto con la coordinatrice didattica, Francesco non va a scuola da due settimane.
Francesco ha cambiato classe già tre volte, prima la H, poi la E, poi… Poi? Boh. In ogni classe che ha cambiato, suo figlio ha conosciuto almeno diciannove altri ragazzini e ragazzine, che moltiplicato per tre sono quasi sessanta. E non vuole più andare a scuola, di nuovo. Vuole cambiare classe, di nuovo. Perché non ha neanche un amico. Ancora.
Adele attraverso gli occhiali scuri guarda di nuovo via Bruno: sono le otto meno cinque, qualcuno già sgambetta verso l’entrata. Capelli rosa, treccine, gel, felpe col cappuccio, dita affusolate e sudate a gesticolare per dire qualcosa di estremamente urgente prima della campanella, mani appese nelle tasche del giubbotto, sbadigli squadernati, anfibi, orecchini. Vorrebbe poterci stare lei, in mezzo a diciannove di quelli, gliene basterebbe uno, se solo… Sospira, si massaggia le tempie.
Francesco non vuole più andare a scuola, un’altra volta, è l’unica cosa che sa dire: «Non ci vado più, voglio cambiare classe». Non spiega, non dice, non proferisce altre parole.
Al telefono la coordinatrice ha già sentenziato: «Non posso accettare che cambi ancora classe, non è educativo, Francesco deve integrarsi, deve fare uno sforzo». Ha aggiunto sibilando come un geyser: «Nella sua classe sono tutti bravi ragazzi, educati, perbene, studiosi». Prima di riattaccare, l’ultimo spruzzo velenoso: nella-sua-classe-sono-tutti-amici.
Adele vorrebbe accendersene un’altra ma il tempo stringe. Deve calarsi nella parte della mamma chioccia, andare a difendere, ad arringare, trasformarsi nella paladina del figlio unico, l’autentica sfegatata ammiratrice di scarrafoni.
Si ripete in testa la tiritera: è colpa dei compagni, è colpa dei professori, è colpa degli astri, di tutti ma non certo di Francesco.
E lo dirà. Dirà che Francesco non ha bisogno dello psicologo, sta benissimo, ha solo dei compagni troppo stronzi. Dirà: bulli. Ecco. Dirà: bulli schifosi, vergogna, mio figlio è bello e bravo e simpatico.
E poi forse aggiungerà: la prego, professoressa, imponga a qualcuno di fare amicizia con mio figlio. Prometta un voto migliore a chi diventa amico di mio figlio. La supplico. Ecco i miei soldi… No. Questo non lo dirà. Deve mantenere la calma.
Adele si alza, sta iniziando a sudare.
Sa benissimo che Francesco ha bisogno dello psicologo, e pure di uno bravo, come si suol dire, e pure di un dietologo, dannazione. Sa benissimo che nessuno l’ha mai bullizzato. Sa benissimo che non è né bello, né bravo, né tantomeno simpatico.
Conosce suo figlio, era un meraviglioso bambino coi boccoli castani e lei ha fatto tutte le cose giuste, l’ha portato al parco, all’asilo, ha preparato panini al burro per i compleanni e ci ha infilzato lo stuzzicadenti con la bandierina, l’ha portato a calcio, a nuoto, a basket, a pianoforte, a catechismo, ha comprato giochi educativi, vietato la tv nelle ore serali, gli ha imposto di lavarsi i denti anche quando non voleva, l’ha abbracciato e coccolato e incoraggiato anche nelle cose in cui si rivelava una palese schiappa.
Ma negli ultimi due anni, tutti i meravigliosi effetti di quegli estenuanti sforzi si sono misteriosamente scomposti in particelle microscopiche, sono svaporati a poco a poco, come una pozza di benzina al sole di agosto, finché improvvisamente: puff! Et voilà! Metamorfosi completata! Ecco qui un sociopatico di merda, il tuo nuovo unico figlio, arrivederci e grazie.
Adele si alza e lascia una banconota da cinque euro sul tavolino, senza neanche aver consumato. Si asciuga una guancia con la manica del cappotto, tira su col naso, può ancora farcela. Si avvia verso l’ingresso laterale, sono le otto e mezza, ci sono i soliti ritardatari che sostano su via Bruno.
L’autobus numero 3/A, anche oggi in ritardo, si affretta verso il semaforo giallo alla fine dell’isolato, un’utilitaria cerca di superarlo, fa una mossa di troppo, una frenata brusca, l’autobus sbanda di colpo, poi si riassesta, un urlo si leva dal marciapiede, è un urlo stridulo, di ragazzine spaventate. L’autista del bus sta ancora imprecando quando sfreccia via.
Adele corre, fermando le automobili con le mani aperte davanti a sé, il cappotto sbottonato e svolazzante, la piega perfetta dei capelli ormai scompaginata.
Sul marciapiede di settantasei centimetri una biondina con la frangia è distesa per terra, si tiene il ginocchio e la spalla sinistri, piange, è rossa in viso, ha intorno un gruppetto di sue simili che la accarezzano.
Adele la raggiunge, la aiuta ad alzarsi, la porta sulla scalinata della scuola e sorreggendola le dice: «Siediti qui».
La ragazzina si abbandona su un gradino, respira a fatica, Adele si accovaccia sui tacchi davanti a lei e le massaggia il ginocchio. Le amiche hanno aperto la zip dell’Eastpak: tra i libri, gli anellini incastrati dei quaderni, le trousse a forma di coccinelle, i portapenne con le margherite, riescono a scovare una borraccia fucsia e la fanno bere. Si chiama Chiara e sta smettendo di piangere. Adele si toglie gli occhiali da sole.
«Ti sei fatta male, Chiara? Vuoi che chiami i tuoi genitori?»
Chiara si asciuga le labbra con il dorso della mano, ha lo smalto sbafato sulle dita, sa di vaniglia, in due la abbracciano da un lato e dall’altro e le dicono dai-chiarè, e Chiara dice:
«No, no, non mi sono fatta niente. Ho avuto paura, e basta.»
«Sicura?»
«Sì, non voglio chiamare i miei. Mi dicono sempre di stare attenta agli autobus davanti a scuola.»
E ride. E le altre due ridono. Come tre topini dei cartoni animati che hanno appena seminato il gatto. Adele, anche lei, si ritrova a sorridere:
«Non ci fate mai stare tranquilli, a noi genitori.»
«Sì, ha ragione, ha ragione» annuiscono tutte e tre, ma non la guardano in faccia, guardano più in basso, in basso a destra, come sotto l’ascella… «Bella la borsa» dice Chiara.
«Già. Si vede che è una Vuitton originale» dice quella di destra.
«Anche io me la comprerò la Vuitton, quando lavorerò» dice quella di sinistra.
«Sua figlia non gliela prende mai in prestito?» chiede Chiara, alzando un angolo della bocca.
«No. Ho un figlio maschio.»
«Viene qui a scuola?»
«Sì, si chiama Francesco Freni.»
Chiara spalanca la bocca, guarda prima a destra, poi a sinistra, oooh, oooh, tutte e tre le cornacchiette in coro fanno oooh. «Davvero lei è sua maaaa-dre?» esclama una, e tutte e tre grugniscono all’unisono sforzandosi di non scoppiare a ridere.
Adele si rimette gli occhiali da sole. Si alza in piedi. «Forza, andate a scuola» dice senza guardarle.
«Dobbiamo fare anche le cose che non ci vanno» dice piano Adele, e volta loro le spalle, e pensa che è incredibile come in un attimo scendi dal Ciao e torni a casa di nascosto e strizzi i vestiti e ti asciughi i capelli, poi chiudi gli occhi, li riapri ed eccoti qui.
Adele si abbottona il cappotto, è già stanca, arriva in cima alla scalinata e si volta a guardare via Bruno ormai vuota. Si è alzato un vento caldo di scirocco, sul muro qualcuno ha scritto che in un mondo in cui siamo numeri dobbiamo essere i numeri uno, accanto un manifesto dice che l’associazione “Jeunesse dorée” presenta la festa di primavera e siete tutti invitati.
È una bella giornata. Nessuno si è fatto male.

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