Pensavo anche questa mattina, col foglio bianco davanti, io che non tocco penna da non so più quanti mesi, che nessuno crederebbe ancora come e quanto la bellezza abbia abbandonato la mia casa, se mai vi si sia fermata magari come soffio di corrente fra due stanze. E che tutto ciò che accade fra queste mura e che abbiamo respirato per anni sia stato causato da me. Per questo ho deciso di scrivere questa lettera.
Da tempo in confessione chiedo a don Liborio di venirci a trovare, sarebbe bastato un caffè, anche solo un’occhiata in salotto per accorgersi della ferocia che gira in queste stanze. Lui ha sempre sorriso e scrollato le spalle. Ha da fare parecchio con la comunità, io lo comprendo, ma la pietra che sento in gola è cresciuta nel tempo e non so né ingoiarla, né sputarla fuori, quindi mi sono mossa.
Una ventina di giorni fa in chiesa ha annunciato la mostra fotografica che poi vi dirò, mi era sembrata una buona occasione, lui ha questa passione di scattare immagini da quando era ragazzo in seminario, ne avrebbe fatto volentieri una professione ma la povertà l’ha costretto ad altre scelte, così mi raccontò una volta; si diverte però ancora a giocare con l’obiettivo, per la sua missione di pastore di anime, beninteso: ritrae alberi, farfalle, facce di bimbi l’acqua che scorre nel torrente sotto la chiesa, anche ritratti di persone meritevoli capaci di fare da modello e di indicare la strada retta da percorrere per chi sia indeciso o di pensieri fragili.
Quella domenica, in predica, ha chiesto a noi del paese, tutti quanti, di poter entrare in casa di ciascuno in un momento convenuto del pasto, mattutino o serale, a scelta nostra, e di farci trovare con abiti appropriati e buona disposizione d’animo; solo pochi minuti per scattare la fotografia, non vuole disturbare, tutt’al più gli offriamo caffè e dolcetto, che ci va pazzo.
Le foto le appenderà in sala dietro sagrestia, quella che utilizza per il banchetto di Natale il 24 sera e questa esposizione, ha detto, sarà un bel modo di celebrare la famiglia che dà tanta ricchezza alle nostre vite e fa da modello a quella degli altri, anche a quelli, che oggi sono tanti, che la rifiutano. Ha trovato un bel titolo, Il regno dell’amore e ci farà la locandina.
Quando l’ha annunciato in chiesa i miei di famiglia non so se hanno sentito, stavano accanto a me nel banco ma non credo ci abbiano messo attenzione né mio marito Arnaldo, né Anna e né Michele, che hanno ormai 18 e 8 anni. Il banco è nostro di famiglia, si sa, ce li ho sempre accanto e ho visto che come sempre non hanno ascoltato neppure una parola. Vanno in chiesa per buona creanza e per la posizione di mio marito, il banco, la domenica, non può restare vuoto, può pure darsi che qualche parola l’ascoltino, ma ricordarsela è un’altra cosa: Anna legge un libro attorno al quale ha messo la copertina del messale, Michele guarda nel vuoto come sempre e mio marito sembra attento, ma è una finta perché non crede in niente.
Io invece ho sempre ascoltato a fondo e mi sono sempre confessata, non perché sia buona e religiosa ma perché ho dentro una malattia senza perdono fin da quando ero ragazzina e dissi a mio padre che figli non ne volevo e neppure matrimonio; questo ha prodotto danni anche gravi, ho provato tanto a guarire senza riuscire, poi è successo qualcosa.
Quando don Liborio disse della mostra, quindi, anche senza sentire mio marito ho pensato di rispondere al parroco che la fotografia la facciamo volentieri ma senza preparazione né vestiti buoni, perché così viene più bella e naturale; e non è questo che interessa a un buon fotografo? Lui era incerto, ha temuto di essere indiscreto, ma la storia della naturalezza l’ha convinto. Il tiglio che fa ombra alla nostra finestra l’ho proposto come nascondiglio e gli ho detto anche che meglio farla a ora di cena questa fotografia, quando le luci sono accese e lui dal buio di fuori vede meglio quello che accade in casa.
La può fare senza flash, don Liborio? Ha detto si. Gli ho assicurato che mio marito era d’accordo e che gradiva, mento sempre e mi viene bene, ho aggiunto sarebbe stato utile anche con il partito per la prossima campagna elettorale ma a quel punto mi ha guardato strano e mi sono tappata la bocca per non esagerare.
Io volevo che lui la vedesse bene la mia famiglia, ci tengo a spiegarlo. Voglio che scatti la fotografia delle facce vere di tutti, la mia compresa, perché non ci ha mai creduto a quello che dico. Volevo cancellare quel sorrisetto che intravvedo quando lascia aperte le ante del confessionale e passa un po’ di luce, per stare meglio io e far stare meglio tutti, visto che è colpa mia di tutto.
In confessione, infatti, otto anni fa quando nacque Michele, che non parla, non ha mai pianto e fissa sempre il vuoto, mi disse di frugarmi dentro per ricordare se da incinta qualcosa fosse andato storto, se avessi avuto cattivi pensieri o frequentato persone non buone o pratiche sospette.
Certo che qualcosa era successo ma come lo potevo dire! Grazia Cenci, su mia richiesta, mi aveva dato certe erbe che strizzano l’utero come un canovaccio prima che il bambino cresca nella pancia, una cosa indolore quando è tanto piccolo che neppure se ne accorge perché tanto non s’è formato il cervello e il cuore figurarsi, poi.
O me ne diede poche e non bastarono, oppure Michele non si sa perché ha continuato a crescere ed è nato pure bello sano all’apparenza, ma subito s’è visto, quando ancora non camminava, quello sguardo curioso e trasparente che neanche adesso si posa su niente e quando cade su me mi gela il sangue. Non ha mai aperto bocca.
Io lo bacio, l’accarezzo, gli parlo e gli faccio tante cure ma tutto inutile, sta da un’altra parte e gli occhi girano o sono fissi su qualcosa ma lo capisco che non guarda niente e il mondo non gli interessa. Arnaldo lo volle portare in ospedale per una visita gali occhi cinque anni fa, era un bel giovane vivace il dottore che lo visitò a fondo ma disse che era sano e che il problema era un altro, non di occhi insomma; ci diede un indirizzo su un foglietto, mio marito lo buttò appena usciti. Disse che quel dottore era ignorante e presuntuoso e finì lì.
Anna è l’opposto, ha gli occhi solo per rimproverare me con o senza parole e sorride solo al padre. Aveva dieci anni quando è nato Michele e tutto è cambiato. Chiaro che mi dedicassi a lui che era così piccolo e strano, tempo non ce n’era tanto dopo le faccende per tutto ciò che mi chiedeva suo padre; una volta glielo spiegai ma non servì a nulla e da quando le dissi che da moglie e madre avrebbe compreso l’inferno che è, mi fissa con occhi così brutti che mi viene da fare il segno della croce anche se non ci credo.
Neppure è cambiato, quello sguardo, quando Arnaldo una volta lasciò la porta aperta per usare la cinghia con me come ha sempre fatto; la usò così forte quella volta che non feci in tempo a tapparmi la bocca e dopo, quando se la rimise ai pantaloni e uscì, con Anna ci si scontrò nel corridoio, la vide bene e la vidi pure io ma né lui né lei dissero una parola sul fatto che era rimasta a guardare, né Anna dopo tirò fuori un gesto, un sospiro, non dico un bacio per me ma qualcosa di umano almeno, niente. A tavola la sera, parlò solo al padre, con dei sorrisi che non le avevo visto mai tanto erano belli e dopo cena io vomitai tutto.
Mio marito la cinghia l’ha usata anche all’inizio; sembrava gli facesse provare più gusto quando mi veniva sopra, poi mano mano è diventato qualcos’altro, dopo la nascita di Michele prese a farlo con più rabbia e io, che ero contenta che oramai facesse solo quello, per paura che tornasse alle vecchie abitudini non ho mai protestato, aspettavo solo che finisse e si mettesse a dormire.
Ogni tanto provavo a dire qualcosa a don Liborio, certo non le cose più intime. Rispondeva sempre che quando le cose in famiglia vanno male è la madre che deve fare lo sforzo di comprendere in cosa è mancante, perché il padre è impegnato fuori e più importanti sono i suoi compiti, maggiore è il compito materno. Una volta disse che attorno alla madre gira tutta l’energia della famiglia, la pronunciò strana questa parola, come ispirato e le volte successive anche con gli occhi verso l’alto. Confesso che la prima volta pensai che mi stesse prendendo in giro per tutta quell’importanza, poi capitò che una volta la perpetua ebbe la febbre e mi chiese per piacere di rassettare io le stanze della canonica, perché ha fiducia, vidi allora sul comodino un manuale per interpretare le anime e i pensieri e ho capito che non c’è da scherzare e che sa di che parla.
Della cinghia però non dissi mai niente, né al parroco né a mia sorella. Provai con lui, una volta, si, ma prese fuoco come un cerino e mi piantò addosso i due occhietti di brace di quando si infuria. Non mi mentire, tu dici tante cose per convincermi perché hai un disegno in testa che non mi piace e non ti fa onore. Così disse, lo ricordo a memoria e fu l’ultima volta che provai. Aggiunse e lo fa sempre, che ho una famiglia che è come una montagna da scalare, che a Michele serve un amore infinito e che Anna è forte, guarda lontano e farà tutto ciò che vuole nella vita, beata lei. A proposito di mio marito (l’ha ripetuto anche l’altro giorno), ha sempre detto che devo ringraziare Dio che una donna ignorante come sono io abbia sposato un uomo che adesso è sindaco.
Comunque, don Liborio la proposta della fotografia di nascosto l’ha accettata, anche se un po’ stranito e ci siamo accordati per martedì scorso sera.
Lo so che la doveva ancora sviluppare i rullini ma mercoledì mattina l’ho cercato per sapere se era riuscito a scattare perché la sera prima, combinazione, sono successe cose che mi viene davvero difficile raccontare. Lui aveva una persona nel suo ufficio e ho aspettato ma quando sono usciti insieme non mi ha neanche guardata. Ci sono tornata al vespro e lo stesso non è stato possibile parlargli, allora ho smesso di inseguirlo e ho pensato che mi avrebbe fatto sapere lui qualcosa.
La cena della sera prima era stata perfetta per la foto, avevo servito cose semplici e buone in buon vasellame e la scena era stata quella solita che volevo che ritraesse: Arnaldo che guardava lontano, muto e torvo come se il mondo girasse sempre alla rovescia, la mascella una tagliola appoggiata sul collo, chiusa serrata; Anna quasi sempre in piedi per qualche motivo che spiava suo fratello dicendogli di fare questo e quest’altro, senza che lui desse segni di vita, lei con una faccia così feroce, così cattiva che non sono intervenuta solo per non guastare la fotografia. Michele, invece, per tutto il tempo ha guardato fuori dalla finestra come se sapesse cosa stava capitando e come se vedesse al di là del vetro e aldilà del tiglio, ma era impossibile.
Poi è successo che Anna a un certo punto s’è alzata per scuoterlo, gli ha urlato di guardare nel piatto e di mangiare ma lui non si muoveva e seguitava a fissare fuori, allora mia figlia in malo modo ha chiesto a me di intervenire, mi ha accusata di lasciare Michele allo sbando e di fregarmene di tutti, ma sono rimasta zitta né mi sono mossa per non rovinare la fotografia.
È scoppiato il pandemonio.
Credo davvero che il diavolo sia entrato in questa stanza, se non c’è sempre stato. Arnaldo ha aperto la tagliola che ha in bocca, ha sbattuto i pugni sul tavolo e mi ha urlato di andare in camera mia se non riesco a badare ai figli. Mi ha sollevata a forza dal tavolo dove ero aggrappata e mi ha spinta fuori a calci.
Io ho resistito per rimanere nella stanza, sperando che don Liborio fotografasse tutto, non ho fatto resistenza e qui è cominciato l’incredibile, che se ci penso le lacrime mi impediscono di scrivere.
Michele si è alzato piano piano da tavola.
Muoveva i passetti piccoli di quando aveva tre anni, i capelli che oramai sono lunghi perché urla quando li proviamo a tagliare gli ondeggiavano attorno al viso a destra ed a sinistra come i robot nei film di fantascienza.
Mentre il padre e la sorella gli urlavano di tornare a tavola lui ha continuato i suoi passetti leggeri fino all’altra parte della sala e io, che speravo solo che don Liborio stesse vedendo e sentendo, tenevo il fiato sospeso. Non mi ricordo mai di aver visto mio figlio alzarsi a metà pasto, tantomeno l’ho visto camminare a quel modo come se dietro la schiena avesse una chiavetta per la carica. Era buffo, ma il sangue mi si è gelato perché davvero ho pensato che vedesse e capisse tutto quello che stava accadendo e non solo la cattiveria di suo padre e sua sorella, che più chiari non potevano essere, ma la foto di don Liborio, il tiglio dietro cui era stato nascosto, la pietra che ho fissa in gola, i miei pensieri, le erbe di Grazia Cenci, tutto.
Non lo crederete ma quel bambino si è fermato davanti alla radio, l’ha toccata a tentoni come fosse cieco e cercasse di capire com’è fatta, ha girato la manopola e alzato tutto il volume, (ma come lo sa come funziona…). Sarà stato un caso ma l’ha sparato al massimo e a quel punto è stato tutto un gracchiare furibondo nella stanza, una baraonda. Arnaldo si è buttato a prenderlo per un braccio, tanto forte che la sedia è cascata a terra, l’ha acchiappato a strattoni, gli urlava di ubbidire e a me ripeteva la colpa di quel figlio deficiente, ma Michele pareva non sentirlo, tornava alla manopola delle stazioni radio e giuro pareva che cercasse qualche cosa.
Il padre è riuscito a tenerlo lontano dalla radio e ha cominciato a fargli piovere sberle in faccia ma lui non ha cambiato espressione. Solo a un certo punto mi è scappato un singhiozzo e deve aver sentito, si è voltato e mi ha guardato ma anche mentre suo padre continuava a fare piovere sganassoni non ha versato una lacrima. Guardava fisso verso di me, con quegli occhi obliqui che non so se non dicono niente o se non capisco io e mentre Arnaldo gli girava la testa a forza gridando guardami negli occhi, guardami negli occhi, lui seguitava a stare girato a fissarmi come se il collo fosse di gomma.
Allora si è sentito un urlo di lupo. Profondo come un pozzo, era uscito da me.
Si sono fermati tutti come se ci fosse stato fatto un incantesimo e Michele…si lo giuro, ho visto Michele guardarmi, voglio dire che non ha solo girato la testa verso di me, ho proprio visto che guardava, che mi guardava. Meglio, che mi vedeva. Mi vedeva!
E non potrei giurarlo, ma quella stortura comparsa fra le labbrucce serrate poteva essere un sorriso, se nella sua vita ne ha fatti altri io non ne ho visti, ma ancora non so se è stata un’immaginazione.
Don Liborio da martedì non l’ho più visto. La perpetua dice che è in città per certi affari ma l’ho intravisto una volta dall’altra parte della strada e mi ha visto pure lui e ha affrettato il passo, anzi si è messo a correre. Io da lui non mi aspetto più niente. Forse ha fotografato tutto, forse ci sta pensando, forse i rullini hanno preso luce.
Sono stata chiusa tre giorni in cameretta, uscita solo per cucinare, neppure ho spicciato i letti. Non faccio che ripensare a martedì sera, non ho mangiato né bevuto nulla ma poi ieri sera alla fine sono comparsa in sala. Si, sono uscita e l’ho fatto per Michele, non tanto perché abbia bisogno di me, oramai se trova il cibo pronto sa come fare, ma perché quel figlio ho capito cosa voleva martedì sera. L’ho capito stanotte.
Sono entrata in sala da pranzo mentre tutti e tre ancora cenavano. Mio marito è rimasto col tovagliolo sulla bocca, Anna l’ho vista che stava per scattare e aggredirmi per l’ennesima volta ma il padre le ha fatto un cenno e si è quietata. È intelligente, mio marito, per questo è sindaco.
Michele seguitava a guardare il suo piatto, come nulla fosse, lo sguardo azzurro e obliquo di un altro mondo che mi fa paura.
Ho salutato tutti con un sorriso, che mi è costato caro ma dev’essere riuscito perché la gola duole meno da un po’ di ore. Poi sono andata alla radio e l’ho accesa. La stazione l’ho trovata subito, grazie a Dio, quella che piace a me, musica americana del dopoguerra, trombe e non so che altro che fanno dimenticare tutto.
Mi sono sentita leggera. Mi sono sentita che potevo tutto e ho capito che quello che senti dentro diventa la tua realtà. Allora non ho esitato più.
Dentro la schiena si agitava una specie di serpente e ho cominciato a ballare nel centro della stanza, davanti a tutti e tre. Ho ballato sulle mie disgrazie e sulle loro, sulla cattiveria di tutti, la mia e la loro, tre pedine allo sbando in un mare in tempesta, sotto un uragano di pioggia ghiacciata, una tormenta di neve che sommerge e asfissia.
Su quei cumuli di neve io ho ballato, ballato e ballato, secondi che sono parsi ore, senza guardare nessuna delle loro facce che mi avrebbero freddato e spaventato. Ho solo ballato, come nessuno mi ha insegnato, come non ho mai fatto, come ho desiderato fare quando sentivo quella musica la mattina, spicciando sola in casa. Ho ballato sapendo che nessuno avrebbe avuto il coraggio di fermarmi, perché ero decisa e questo non mi era successo mai.
Quando le guance le ho sentite rosse e calde ho preso coraggio e sono andata dietro al tavolo, ho staccato le braccia di mio marito dalla bocca dove teneva premuto il tovagliolo, chissà per non far uscire cosa, e l’ho trascinato al centro della stanza. L’ho sentito debole sotto la mia pressione, l’ho tirato per alzarsi mentre la musica continuava e continuava, sono riuscita a farci una piroetta nel bel mezzo della stanza, davanti ai figli e lì ho sentito una immensa nostalgia sulla quale ho soffiato forte perché quella sarà per un’altra vita, non per questa.
Ho lasciato mio marito sconvolto sulla poltrona e sono andata a prendere Anna, che ha resistito e mi ha spinta via ma ho riso e le ho mandato un bacio, come un’invasata se ci penso, senza guardare i suoi occhi che mi avrebbero voluto fermare, ne ero certa.
Non ho fatto in tempo a girarmi che ho sentito Michele picchiarmi con forza la schiena.
Era dietro di me, guardava in basso e porgeva le braccia per ballare. Mi è esploso qualcosa dentro, ho riso, ho pianto, ho volteggiato con lui senza guardarlo per non vedere quegli occhi sempre vuoti che mi hanno angosciato la vita, mentre qualcosa urgeva dentro e mi diceva sbrigati che fra un poco finisce, sbrigati e vattene.
È finita infatti. Mio marito ha spento la musica e tutto si è afflosciato e ha cambiato colore. Michele si è paralizzato come un automa ma l’ho preso per mano e sono corsa nella cameretta, ho chiuso a chiave e sono rimasta seduta sul letto con lui, abbracciata col fiato grosso di un cavallo in salita, bagnata da testa a piedi.
Apri, Nina, ho sentito dietro la porta, la voce di Arnaldo era profonda e calma, quasi suadente, ma non mi sono mossa.
Apri Nina, ha detto ancora.
Michele mi ha stretto la mano.
Apri, Nina, apri, perdio.
È tardi, ho pensato, sarà per un’altra vita.
Appena crolli a russare io me ne vado con la prima corriera. Manca poco.