Cani finti sui cruscotti

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Illustrazione di Agrin Amedì
Cinque squilli prima della risposta. Poi una voce concitata che cerca di ergersi tra i rumori di una cucina affollata. «Ristorante l’Ancora, dica al volo.» Nessun saluto, nessuna presentazione… Riccardo Scafati partecipa a una cena esistenziale.

Cinque squilli prima della risposta. Poi una voce concitata che cerca di ergersi tra i rumori di una cucina affollata.
«Ristorante l’Ancora, dica al volo.» Nessun saluto, nessuna presentazione. Anzi subito un ordine per metterti con le spalle al muro. Un’espressione guascona come a dire “non mi serve la cortesia, ho le persone che mi cascano dentro il locale, quindi o ti va bene così o ti apri una Simmenthal a casa”.
«Ah… sì buongiorno… senta sono Paride Mosconi vorrei prenotare un tavolo per dieci persone stasera a cena. Noi veniamo tutti gli anni…»
La voce senza pazienza all’altro capo del telefono non sembra scossa da questo servile tentativo di creare una sorta di familiarità e risponde rapida: «Il turno delle 20 è tutto pieno, potete veni’ alle 22… altrimenti un altro giorno».
L’empatia sta raggiungendo livelli quasi zuccherini, per cui decido di dare un taglio a questa seppur educativa conversazione telefonica.
«Andata per le 22, a stasera.»
Quanto sono retrogrado da uno a mille se penso che una volta alle 22 si usciva per andare a ballare? La verità è che ho nostalgia. Nostalgia di tutto. Dalle nostalgie popolari, sempre in voga nei cinema d’essai, come quella per l’infanzia o per “il calcio di una volta”, a quelle personalissime, subliminali e quasi impalpabili, come la nostalgia per il sapore che avevano gli ovetti Kinder una volta, o addirittura delle febbri prese durante la scuola, quando si poteva stare a casa a leggere o vedere il tennis in tv.
Ma il mondo corre e, per dirla come McCarthy, questo non è un paese per vecchi, benché io abbia solo quarant’anni. È un paese per chi cena alle 22, per chi risponde al telefono con strafottenza o per chi resta sveglio per prenotare online il lancio commerciale di un nuovo orrendo paio di scarpe.
La voce penetrante di mia moglie mi riporta alla realtà. Prima di recarsi al ristorante, c’è da andare a prendere lo zio Antonio all’altro capo del mondo. Quando le faccio notare che siamo già in quattro in macchina – lei, io e le nostre due gemelline – ribatte che una volta le auto erano omologate per cinque persone.
Eh sì… “una volta”, ai bei vecchi tempi. Anzi a dirla tutta, ma a lei non lo dirò mai, a volte si tornava rocambolescamente in sei, con una persona sdraiata dietro di traverso sulle nostre ginocchia appiccicate. Spesso era mattina, dopo chissà quali avventure cavalleresche.
Lo zio Antonio è lo zio strano, riscontrabile in tante famiglie più o meno per bene. Non si è sposato, non beve, ha maturato negli anni un progressivo rifiuto della civiltà, smettendo di guidare e vedendo la tv solo di nascosto, senza farlo sapere a noi citrulli che continuiamo a lessarci il cervello davanti allo schermo.
Non guida dal 1990, anche perché tanto c’è Paride lo scemo che fa da chauffeur.
Durante l’interminabile tragitto tra la sua abitazione isolata dalla società dei vivi ed il ristorante, ammassati in un’utilitaria che finirò di pagare nel 2034, ci delizia con discorsi sconclusionati sull’effettiva esistenza del “Re del Mondo” di un tale Guénon o sulla correlazione tra inquinamento acustico e aumento della dipendenza da pornografia.
Il sollievo che ho sedendomi a tavola è quindi notevole, nonostante il carnaio che mi circonda e la gara di capricci tra le nostre figlie, mia moglie e i miei suoceri su chi debba sedersi a capotavola. Alla fine, per par condicio, si offre mio cognato, che con la sorella di mia moglie e il loro unico figlio completano l’allegra brigata di annoiati.
Cercando di isolarmi dalle battute da caserma del cameriere che gioca la carta della facile simpatia al contrario del burbero strafottente che risponde al telefono e prende le prenotazioni, non posso fare a meno di pensare quanto il lusso, attualmente, coincida con una situazione sempre più rara di silenzio, penombra, frescura.
Oggi è tutto rumore, luci accecanti e caldo innaturale. I nostri organi di senso non sono stati creati per questo. Lo sanno bene le mie orecchie che ora sono prese d’assalto dalle considerazioni incalzanti di mio suocero – che essendo sordo – urla. Mi parla di crisi, obbligazioni sicure, del pranzo gratis offerto dal candidato alle comunali – che è comunista, ma alla fine “basta che se magna”. Tutti argomenti che non mi interessano, sui quali non so e non voglio controbattere. Mi limito ad annuire, come i cani finti sui cruscotti.
Tra l’antipasto strabordante di salsa rosa e i primi, la testa comincia a girare nel senso opposto in cui gira la bocca del mio stomaco da stamattina. Senza accorgermene, giro anche il collo, forse sperando inconsciamente di riequilibrare tutte queste rotazioni.
È in questo preciso momento che mi accorgo di lei, un paio di tavoli più in là. Ha un caschetto di capelli castani, sorride ai suoi due amici con cui condivide la tavola. Avrà credo la metà dei miei anni a giudicare da come riesce ancora a essere allegra, e dal luccichio dei suoi occhi che fa ballare ovunque tranne che nella mia direzione.
Osservarla qualche secondo mi riporta subito ai falò di Ferragosto affrontati senza la paura dell’umidità o il fastidio della sabbia nei sandali. Ora ho di nuovo i miei vent’anni, i miei capelli e la vista limpida, nessun acciacco a prostrarmi a terra. Vedo alzarmi e andare da lei, Sara, per chiederle se per caso vuole bersi una birra con me. Poi magari una vodka alla pesca, che non so nemmeno se la fanno più. Scompaiono i suoi due amici, dissolti nella nebbia dell’oblio, mentre i miei rumorosi congiunti lasciano il posto a figure quasi dimenticate di amici che mi incoraggiano a rompere il ghiaccio. No, non siete voi, che ne capite di gioventù voi che condividete con me questa modernità vecchia vestita da giovane con le rughe del vissuto coperte da tonnellate di cerone luccicante e chimico?
Forse Sara ruoterà gli occhi facendo la preziosa, dicendo che deve pensarci o che il fratello di lì a poco tornerà a prenderla.
Solo una birra, cinque minuti di sorrisi e tentativi olimpionici di rendersi interessante ai suoi occhi vivaci. Poi potrà tornare da suo fratello, dai suoi, nella sua casa al piano terra con il dondolo e due cani, un labrador e un meticcio e l’auto parcheggiata nel vialetto, con l’arbre magique verde al pino.
Sara, con la sua aura di consapevole incoscienza, ora pianta i suoi occhi su di me, e io ci vedo i bagni a mare e le fughe in macchina alla ventura con la circospezione dei neopatentati e la determinazione di chi è pronto a plasmare la propria vita. La strada, all’orizzonte, sembra proprio entrare nel suo sguardo, e io per proseguire il mio viaggio, quasi impercettibilmente, mi avvicino al suo viso.
Un aroma di caffè appena fatto mi pervade. Un caffè fatto con la moka, senza marchingegni, solo calore e acqua. Quel profumo che ti svegliava alla mattina e solo a sentirlo ti scaldava cuore e stomaco. E i nostri visi sono vicinissimi…
Se lei si scosta posso sempre prenderla a ridere e ritentare con un’altra strategia, in questo viaggio tempo e spazio tornano a essere di nostra esclusiva competenza. Sono nostri alleati come un tempo, non muri che si stringono attorno al nostro respiro, astrazioni subite dal nostro ritmo stanco di oggi.
Le nostre labbra si stanno per sfiorare. Posso quasi esser certo, ora, di avere riconquistato i miei vent’anni, per qualche arcano sortilegio, per un secondo, o forse per sempre.
Comincio ad avvertire la morbidezza di questo bacio fuori dal tempo mentre pian piano sento crescere come un’aria umida e irrespirabile, aria di temporale… e un secondo dopo, ecco scendere un tuono agghiacciante, che negli ultimi istanti si trasforma nella voce stridula di mia moglie. Con il trucco sbavato continua a fissarmi dall’altro capo del tavolo, dove in realtà sono rimasto sempre seduto, senza muovermi: «Paride, sta frittura, se non la magni diventa gomma».
Il tono è come sempre alto, e con la coda dell’occhio intravedo la ragazza due tavoli più in là, che per un istante ha avuto il nome di Sara: ridere di noi, con i suoi due giovani amici.

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