Asfalto

di

Data

Illustrazione di Agrin Amedì
Tepore. Tepore sull’asfalto, tu che ti volti mentre io resto fermo. Restavo fermo. Qui, adesso. Andrea Paglino decelera verso un ricordo ora accecante.

L’assistente gli fece segno di entrare senza distogliere gli occhi dallo schermo del computer.
Lui bussò e aprì la porta.
Il sangue gli pulsava nelle tempie, un ronzio intermittente attutiva i rumori e le voci.
Prese un fazzoletto dalla tasca destra della giacca e si asciugò la fronte sudata.
Il nodo della cravatta gli strozzava il respiro.
L’uomo seduto alla scrivania di cristallo Zanotta stava parlando al telefono. Alzò una mano aperta per fermarlo.
Andrea si bloccò in attesa che finisse la chiamata.
Lui fece scorrere la sedia girevole, adesso gli dava le spalle. Alternava risatine e parole sussurrate.
Andrea rimase immobile vicino alla porta. Sullo schermo a parete alla sua destra passavano le quotazioni di chiusura della borsa di Milano. Una vampata di caldo gli arroventò il viso.
Il direttore del personale era in piedi accanto alla sedia dietro la scrivania, aveva alzato gli occhiali sulla testa e scorreva con il pollice i messaggi sul suo telefono.
Indossava un gessato grigio scuro, il profumo dolciastro e opprimente della sua colonia invadeva la stanza.
L’uomo seduto finì la telefonata e fece ruotare la sedia. Senza alzare lo sguardo mosse la mano avanti e indietro per invitarlo ad avvicinarsi. Poi poggiò i gomiti sulla scrivania e si sporse in avanti.
Strinse le labbra e sorrise. «Devo lasciarla andare» disse con voce piatta.
Andrea non si mosse, in attesa che quello finisse di parlare. Ma lui riprese in mano il telefono e fece girare di nuovo la sedia.
Il direttore del personale gli allungò una cartellina rossa con dentro dei fogli prestampati. «È tutto scritto lì. Se ha bisogno di chiarimenti parli pure con la mia assistente. Buona fortuna»
Poi fece un cenno oltre la parete a vetri e alzò di nuovo gli occhiali sulla la fronte.
Ebbe bisogno di respirare, e faticò a farlo.
L’assistente alle sue spalle aprì la porta, alzò una mano indicando l’uscita: «Prego».
Andrea tornò alla sua scrivania, rimase seduto, in silenzio. Intorno a lui un rumore ovattato saliva e scendeva. Il suo capo, seduto accanto, parlava al telefono, discuteva con un amico di un rigore inesistente. Teneva gli occhi fissi sullo schermo del computer. Il responsabile commerciale dietro di lui, appoggiato con la schiena sulla parete vicina alla macchina del caffè, scherzava con la sua nuova segretaria. Anche lui teneva gli occhi fissi.

Andrea fu inghiottito da un’oscurità profonda. Scivolò giù per un tempo indefinito mentre tornava verso casa. Le strade davanti a lui si stringevano all’improvviso, si svuotavano.
La moglie lo bloccò sulla porta, gli occhi fiammeggiavano. Gli allungò il guinzaglio e gli mise in mano un foglietto con una lista. «Dimmi, tu credi di avere sposato una filippina? O forse pensi di essere un cazzo di sultano?»
«Mi hanno licenziato, oggi.»
«Ecco, aveva ragione mio padre, me lo diceva, lascialo perdere, è uno che non combinerà mai niente di buono nella vita.»
«Mi hanno mandato via, zero preavviso.»
«O forse pensi che dopo avere sopportato quella classe di mostri mocciolosi e viziati per cinque ore dovrei tornare a casa e farti da schiava?»
«Mi ha detto: la devo lasciare andare.»
Lei ebbe un fremito, poi si piegò verso di lui. Sembrava essersi appena svegliata da un sogno. Lo fissò a lungo, la palpebra sinistra prese a battergli. Inspirò a fondo: «Tu, razza di piccolo idiota, solo tu riesci a farti licenziare da un’azienda con più di tremila dipendenti. E adesso come c-a-z-z-o facciamo? Me lo spieghi?» urlò con voce arrochita dalla rabbia, scandendo una a una con lentezza le ultime parole. Gli occhi erano iniettati di sangue, il viso chiazzato di rosso per lo sforzo.
Poi gli si avvicinò a pochi centimetri, sollevò la mano destra e gli puntò l’indice sotto il mento. Con un moto rapido lo tirò ancora più su costringendolo a rovesciare la testa verso l’alto.
Andrea chiuse gli occhi. Rimase immobile per quasi un minuto. Poi la scostò spingendola con il braccio sinistro, entrò dentro casa e dallo “svuotatasche” sulla mensola dell’ingresso prese le chiavi della moto. Scese in garage facendo i gradini della scala interna a due a due, accese e uscì sulla strada sfiorando il bordo della saracinesca alzata a metà.
Scaricò la manopola del gas fino in fondo, la ruota posteriore sbandò per qualche metro fino a che non riuscì a rimetterla dritta.
Si infilò come un missile sulla superstrada che arrivava fino al mare. Il mare di Roma. Quello verde, sporco, puzzolente. Il mare di Roma.
Una corsa veloce, sempre più veloce per fregare il sole.
Pensò che sarebbe stato bellissimo andarsene insieme a un tramonto, pensò che doveva solo spegnere l’interruttore che dentro era già buio. Accelerò di più e ancora più.
L’autocisterna – in ritardo a quel semaforo – lo stava aspettando.
Andò su verso il sole arancione e poi scese giù dentro l’asfalto tiepido.

Le ambulanze dell’Ospedale Grassi arrivarono in cinque minuti. I lampeggianti illuminavano la luce azzurrina della sera. Gli misero un tutore intorno al collo per bloccarlo, gli sistemarono tibia e perone che si erano rovesciati all’indietro, un medico gli infilò una luce negli occhi, scosse il capo.
Il suo corpo diventò rigido, un bozzolo di schiuma rossa gli uscì dalla bocca.
Ma prima che tutto questo succedesse, prima che lui se ne andasse via, mentre volava su verso il sole, il tempo si era fermato e lui aveva visto il prete in piedi davanti a loro il giorno del matrimonio. Continuava a sbattere le palpebre, gli occhi cerchiati di grigio, cantilenava la tiritera dolorosa delle promesse nuziali guardando altrove.
Le braccia calate sui fianchi del padre di lei quando lui lo aveva abbracciato in cerca di una tregua.
La prima volta che aveva incontrato sua moglie, luminosa, profumata, raggiante prima che il peso di una vita sempre uguale gli entrasse dentro come un veleno trasformandola in una belva in gabbia.
Quelle montagne di libri di economia sulla scrivania e ancora la fatica di leggere seguendo le righe con il dito.
I compagni di classe che continuavano a prenderlo in giro perché lui a 16 anni ancora non aveva scopato.
Quella strada più buia che doveva percorrere per tornare a casa dal campetto da calcio e i ragazzi grandi che gli facevano paura.
E ancora quei libri più piccoli, pieni di lettere, mentre suo padre che si chiedeva cosa avesse fatto di male.
Lo infilarono dentro una barella di plastica rigida. Gli attaccarono il pallone azzurro dell’ossigeno, poi un saturimetro al dito della mano, la percentuale di ossigenazione del sangue scendeva, i battiti del cuore rallentavano, si fermavano. Si fermarono.
Ecco, tutto questo successe prima di tornare a quel momento: buio. Buio perchè ha fatto tardi al campetto. Che adesso attraversare quella strada lo terrorizza. Buio che adesso suo padre prenderà la cinta. E poi arriva lui. Ha undici anni anche lui, ma è più alto. «Facciamo la strada insieme?» Le vie prendono luce. Le giornate diventano lunghe. La vita per la prima volta è insieme. E così partite infinite contro il muro e poi la sgommata più lunga vince e poi discese folli e skateboard e poi Uomo Ragno contro Superman e poi chi arriva ultimo è una caccola e poi ce l’ho e mi manca e poi tosse e fammi fare un tiro anche a me e poi chissenefrega di tuo padre e poi che non sei mai più solo e poi quella maledetta, maledettissima macchina di traverso alla sua bicicletta.

Andrea alzò gli occhi dalla strada tiepida e gli sembrò di vederlo, quel ragazzo dalla stessa giacca blu della tuta, la stessa che portava quando si erano salutati per l’ultima volta, gli stessi jeans sbiaditi, un ragazzino magro, alto per i suoi undici anni, gli occhi neri che lo fissavano, la brezza leggera del mare di Roma che gli scompigliava i capelli. Tirò su la mano destra e poi il pollice, come faceva ogni volta che lo lasciava davanti a casa e si salutavano.
Andrea alzò lo sguardo verso di lui e si scambiarono un lungo sorriso.
Chi arriva per ultimo è una caccola.

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