Emilio fece scorrere la tavola di legno e la portò vicina alla lama rotante. La tagliò in due con facilità, masticando nel frattempo un mozzicone di sigaro fra i denti ingialliti. Si asciugò la fronte con il dorso della mano e rimosse gli occhiali protettivi, passandosi sui pantaloni scoloriti le lenti piene di polvere di legno. Fece scorrere il palmo sulla superficie della tavola ancora ruvida, ma con le venature sinuose e le tonalità massello che rendevano già l’idea di quale magnifico oggetto sarebbe potuta diventare.
La rigirò più volte per ammirarla ancora meglio e l’occhio gli cadde sull’angolo in basso dove c’era un foro circolare che prima non aveva notato. Penetrava nel legno, creando una spirale, che in quanto a perfezione avrebbe potuto competere con quella dei gusci delle chiocciole. Emilio ne rimase colpito, ma pensò che probabilmente si trattava di un difetto presente nell’asse quando l’aveva comprata. La ripose quindi sul tavolo. Si tolse le cuffie dalle orecchie, scompigliandosi la massa incolta di capelli brizzolati, e sputò a terra il sigaro rimanente.
Fu allora che si accorse che nel silenzio improvviso del suo laboratorio riecheggiava un ronzio. Pensò che si trattasse di qualche mosca o di qualche altro insetto entrato a cercare un po’ di calore. Ma il fastidioso rumore andava a fasi alterne. In alcuni istanti era fievole e corto come uno strepitio, in altri diventava più cupo e prolungato. Emilio rizzò le orecchie e sorpassò una serie di tavole, mantenute in verticale da un’impalcatura metallica. Gli sembrò che il ronzio crescesse di intensità. Non era neanche più tale, ma una melodia che rimbombava dal lato della stanza, dove aveva disposto qualche giorno prima un ramo bitorzoluto.
Emilio si sporse sull’oggetto e ne osservò la superficie rugosa: non aveva più una forma tortuosa, ma aveva assunto da una parte quella di una mano affusolata con tanto di indice allungato. Da un forellino nel polso fuoriusciva inoltre una voce baritonale. Canticchiava un motivetto simile a quelli di sottofondo alle celebrazioni liturgiche e poi iniziò ad aggiungerci delle parole.
«Il bianco e dolce cigno
Cantando muore,
et io piangendo giungo
al fin del viver mio.
Strano e diversa sorte
Ch’ei more sconsolato
Et io moro beato», concluse con un acuto.
Emilio afferrò il pezzo di ramo, lo capovolse e lo sbatté sulla superficie sottostante. Il canto cessò all’istante e dal foro cadde qualcosa del color della pece. Sembrava cacca di pipistrello, ma poi Emilio si accorse che aveva sei zampe, due antennine che spuntavano dalla testa corazzata e altre due più piccole a mo’ di baffetti. Sollevò il capo verso di lui e si mise in posizione eretta.
«Oibò bon omo! Codesto le par modo di comportarsi?», gli disse con suo grande sgomento.
Emilio restò imbambolato per qualche secondo. Dovette darsi un pizzicotto per rinsavire e si stropicciò pure gli occhi. Ma quando tornò con lo sguardo di fronte a lui, l’insetto continuava ad essere in piedi e con due zampine piegate ai lati del busto.
«Che lei si sente male?», gli chiese, osservandolo sbiancare come se avesse perso di colpo tutto il sangue nel corpo. «Nun l’ha mai visto un tarlo?»
Ma Emilio non sembrava in grado di proferire parola. Spalancò ancora di più gli occhi, sollevando le sopracciglia cespugliose, e li fissò in un punto fra il busto a parallelepipedo dell’insetto e la testa, dove stava legato un truciolo di legno a forma di papillon. Il tarlo se ne accorse e cominciò a ridacchiare.
«Eh… glielo dissi a la mi’ zi’ Elvira che nun ce l’era il bisogno, ma quella l’è fissata che m’ho da vestì bene», si raddrizzò il papillon con una zampetta.
«Ma come… cosa…?», farfugliò Emilio, che ancora faticava a trovare una spiegazione logica per ciò che vedeva.
«Michelegnolo Buonarroti, per servirla», abbozzò un inchino il tarlo.
«A me non serve niente», borbottò. Si rese infatti conto all’improvviso che, per quanto la cosa paresse assurda, quello di fronte a lui era un tarlo vero. E cosa ben più grave era circondato da tonnellate di legno, il suo.
«Che ci fai nel mio laboratorio?», scatarrò e si tirò su i pantaloni, gonfiando la pancia già di per sé tonda. «Eh? Chi t’ha detto di entrare, microbo?»
«È Mastro, Mastro Michelegnolo, se l’è più facile, e so un artista».
«Un artista? Tu?», scoppiò a ridere.
Michelegnolo fece vibrare le sue antennine e si rizzò ancora di più: «Orsù, la conoscon da sempre oltre la Maremma la mi’ arte commestibile».
«E chi se ne frega!», sbottò Emilio. «Questa è proprietà privata. Non tollero gli intrusi.»
«Bon omo, debbo dissentire», scosse una delle zampette, mettendosi l’altra dietro la schiena. «L’arte l’è di tutti.»
«La rottura di palle però devo tenermela io?»
«Le mi opere so tanto belline», sembrò spiazzato il tarlo.
«E le mie no.»
«Lungi da me cader in maleducazione…».
«Ahhh senti pidocchio», lo interruppe spazientito. Mastro, duca, zar, poteva essere pure Andy Wharol o un emissario del Papa, il risultato sarebbe stato lo stesso: doveva andarsene. Alla svelta. «Questo non è posto per te. Vedi di telare e guai se ti ribecco ancora a gironzolare dalle mie parti.»
Sollevò in alto il ramo scolpito e poi lo gettò a terra, spaccandolo in più punti. Non contento, ci passò sopra il piede, godendo dell’espressione schifata del tarlo che muoveva le antennine e osservava in silenzio la scena.
«E adesso? Adesso che mi dici, eh?», gonfiò il petto Emilio. Si sentì riscaldare, invadere dal senso di potere. Gli parve persino che quell’esserino rimpicciolisse ulteriormente.
Michelegnolo inclinò la testa, ma continuò a tacere. Si concentrò poi sulla sua corazza e rimosse una leggera patina di polvere che doveva essergli rimasta addosso durante la sua escavazione: «Nun l’era venuto tanto bene», rispose alla fine con freddezza.
Aprì le ali e, prima che l’uomo potesse ribattere, spiccò il volo verso un’altra parte della stanza. Emilio tese ancora di più le orecchie per coglierne i quasi impercettibili fruscii, sperando in cuor suo che quell’insetto se ne andasse via. Lo vide invece optare per l’angolo in cui teneva i pezzi di legno pregiati, quelli per i quali aspettava da mesi l’ispirazione buona, che avrebbe dato vita a dei veri e propri capolavori. Emilio si rese conto che il tarlo si era inoltre appoggiato accanto a un cubo di ulivo che non era più al suo stato grezzo, ma era stato scavato in modo tale da assumere il volto di una donna con il capo impreziosito da un lungo velo a ricaderle sulle spalle. E non era l’unico pezzo di legno manomesso! Alcune tavole erano state scolpite con figure umane e angioletti, altre con motivi naturali. C’erano busti di uomini e donne ricavati in tronchi di ciliegio e persino una specie di cupola con un lungo pinnacolo che la faceva apparire un grosso imbuto capovolto.
«Che hai fatto qui?», si sentì fumare le orecchie Emilio e avanzò con le gambe che tremavano alla vista di quello scempio. Aveva passato ore, giorni a recuperare quei pezzi di legno e adesso erano tutti persi, per non parlare delle centinaia di euro che non ci avrebbe neanche potuto fare. «Come osi sfidarmi, razza di parassita ignobile!», digrignò i denti.
«Anobium Punctatum, bon omo, tecnicamente so un coleottero».
«Ladro. Ecco che sei, un LADRO!», gli partì uno sputo.
«Suvvia, l’è solo un prestito e per una causa bona. Dobbiam tutti darci una mano, non trova?»
«Ah sì?», strinse i pugni fino a farsi diventare le nocche bianche. Mai in vita sua aveva subito un simile affronto. Ormai era questione di principio fargliela pagare. All’immagine di lui che riduceva quell’essere in poltiglia, un corpo bidimensionale, che non avrebbe potuto più nuocere a nessuno, iniziò a rilassarsi. La bocca gli si distese persino in un sorriso e si ritrovò ad avanzare verso la sua preda con la stessa energia positiva e la placidità di un santo. Gli mancava solo l’aureola.
«Sai che ti dico? C’hai ragione», lo informò zuccheroso.
Poi spalancò la mano e la portò su di lui. La premette contro il legno, spiaccicandovi il palmo fino a poterne sentire ogni singola venatura. Ma Michelegnolo fu veloce: si insinuò nella fessura fra le dita e decollò.
«Mi rincresce, mi rincresce una simile accoglienza!», si posizionò su un’altra tavola. «Nun le sembra un po’ un po’ di esagerare?»
Emilio nemmeno gli rispose. Gli ci mancava solo farsi fare la predica da quel parassita. Scovò un martello lasciato incustodito e si avventò su di lui. Colpì in un lampo l’asse di legno. Il botto rimbombò per il laboratorio, lasciando impresso lo stampo della testa metallica e nient’altro. Nessun cadavere, nemmeno un’antenna spiaccicata. Michelegnolo continuava infatti a ronzare indisturbato in aria. Sempre più irritato, Emilio afferrò i fogli di carta moschicida e iniziò a sparpagliarli su tutte le superfici. Voleva rendergli impossibile l’atterraggio, perché per quanto quel tarlo fosse un osso duro, non avrebbe potuto volare di continuo. E lui assaporava già il momento in cui avrebbe approfittato della sua debolezza per sbarazzarsene. Sventolò pure i fogli, sperando che lo imprigionassero come un moscerino sul miele, ma il tarlo piroettava, volteggiava, più che un insetto sembrava un caccia in guerra.
«Bon omo, non la possiam risolver civilmente ‘sta cosa?», ansimò e si andò a poggiare su una lampadina sparuta del soffitto. «Nun l’è mai morto nessuno pe due pezzetin de legno!»
«Concordo. Da me gli insetti muoiono per molto meno!»
Emilio abbandonò la carta e afferrò una bomboletta di insetticida. Iniziò a spruzzare ovunque. Inondò la stanza di un odore acre, acido come la vernice. Più spruzzava e più gli sembrava che l’ossigeno sparisse. Finì per starnutire a ripetizione, si ritrovò a tossire in cerca d’aria. Aveva i sensi così disorientati che perse di vista la carta moschicida e ci scivolò sopra. Lottò per tirarsi su, con le mani, le ginocchia, il sedere appiccicato a quella sorta di corn flakes giganti.
«Temo che le potrebbe servì una mano», gli ronzò intorno alle orecchie il tarlo.
«Allora vieni qui che uso volentieri la tua!»
Emilio si lasciò sfuggire un ruggito e con uno sforzo sovrumano si rimise in piedi. Michelegnolo si accorse della sua furia e, quando lui gli si fiondò sopra, non vide altra alternativa se non tornare nella parte anteriore della stanza. Scorse la tavola di legno sul bancone e si nascose nel buco a spirale che aveva creato in precedenza. Emilio iniziò a scuotere l’asse, la capovolse, soffiò persino nel buco. Il tarlo tentò di uscire creando un altro foro, ma appena mise fuori la testa, l’uomo gli risoffiò addosso. Allora rientrò, riscavò, si ritrovò a creare tanti di quei buchi per sfuggirgli che il pezzo di legno diventò una gigantesca gruviera. Era stanco anche lui. Aveva le ali che dolevano, le zampette e i denti che pulsavano dal tanto scavare, ma sapeva di non potersi lasciare andare e, quando notò Emilio afferrare il tubo dell’idrante, sbucò dall’ennesimo buco e, appena l’uomo gli fu abbastanza vicino, con un gesto estremo gli saltò nella manica.
Emilio non lo vide. Indirizzò il getto d’acqua verso il legno tarlato, osservandola zampillare dai fori come una fontana. Per essere sicuro di aver ucciso quell’insetto annaffiò tutto ciò che gli capitò a tiro. Ma tanta era la sua ira che non si accorse di essersi allontanato troppo dall’attacco del tubo alla parete. Continuava a tirarlo, a tirarlo, finché all’ennesimo strattone non si staccò e gli restò fra le mani, mentre lui venne investito da un getto d’acqua gelida.
Emilio venne catapultato a terra. Rimase ad annaspare, finché il flusso dell’acqua pompata dal serbatoio non cessò. Tossiva acqua, aveva pure il fiatone, ma dentro di lui covava la soddisfazione di aver almeno raggiunto il suo obiettivo. Si tirò a sedere, cercando di regolarizzare i battiti del suo cuore, e fu allora che fra i gocciolii dell’acqua intorno a lui, si accorse della presenza del terribile ronzio. Distinse persino la voce baritonale e la melodia che già aveva ascoltato in quella giornata.
«Morte, che nel morire
Mi empie di gioia tutto e di desire.
Se nel morir altro dolor non sento
Di mille morte il dì sarei contento», gorgheggiò Michelegnolo.
Si poggiò con grazia sullo scaffale accanto ad Emilio, che invece era scosso da tremiti per la rabbia e il freddo. Si toccò con le zampette il papillon, che gli si era spostato tutto da un lato, e lo riportò al centro.
«Tutto sto trambusto l’era proprio necessario?», soffiò su una goccia d’acqua.
Emilio si sentì esplodere nel petto. Aprì e chiuse ad intermittenza la bocca, senza riuscire ad emettere alcun suono. Poi si bloccò. Captò infatti in lontananza dapprima un fruscio, che si trasformò in un ronzio acuto, finché non gli sembrò che fuori dal suo laboratorio si fosse radunato uno sciame di calabroni. La porta scricchiolò. Iniziò a disintegrarglisi di fronte agli occhi, come una barretta di cioccolata sciolta al sole, e ne entrò una fitta nube composta da migliaia di insetti, che cantavano in coro.
«Quel augellin, che canta
Sì dolcemente
E lascivetto vola
Hor da l’abete al faggio
Et hor dal faggio al mirto-
S’avesse umano spirto
Direbb’: ardo d’amor, ardo d’amore!», finirono con un acuto e vorticarono per la stanza, posizionandosi su tutti gli oggetti.
«Bon omo, io glielo dissi che la mì arte l’è commestibile», attirò la sua attenzione Michelegnolo.
Emilio era frastornato. Restò immobile ad assistere alla disgregazione del suo prezioso legno. Poi iniziò a battere a ritmo un dito sul pavimento, trasportato dalla melodia delle migliaia di alette che sbattevano. La testa gli oscillò da una parte all’altra e infine, anche il busto ruppe gli indugi.
«Ma ben arde nel core
E chiam’ il suo desio
Che li rispond’:
ardo d’amor anch’io!
Che sii tu benedetto,
Amoroso, gentil, vago augelletto!», gorgheggiò Michelegnolo.
Raggiunse i suoi compagni ed Emilio non poté far altro che iniziare a cantare anche lui.