Il bobbo è tondo ma ha due sole dimensioni: è completamente piatto.
Per questo per muoversi saltella sempre in un’orbita perpetua, rivolgendo ad alcuni esclusivamente il suo davanti, ad altri invece solo e soltanto il suo dietro. Il profilo invece è inconsistente e nessuno potrà mai vederne i lati.
Si vergogna molto di questa sua mancanza e affoga il suo imbarazzo, contrariamente a qualsiasi logica, non tentando di nascondersi come in fondo penserebbe chiunque; il bobbo invece vuole evidenziarsi il più possibile in tutta la sua tondità cerchiosa e perfetta, come quella di un rosa rassicurante e infantile, liscia al tatto e dolce al gusto.
Da anni ormai è chiuso in una stanza dalla quale purtroppo non è in grado di uscire. Nessuno però riesce a capire come sia riuscito a entrare lì dentro. La porta infatti è davvero stretta, molto ma molto più stretta rispetto al bobbo il quale possiede un diametro decisamente ampio.
Le ipotesi più accreditate sono due:
o un tempo il bobbo possedeva anche una terza dimensione soppressa dalla forza schiacciante della sua andatura saltellante oppure deve essere cresciuto in maniera spropositata da quando è entrato nella stanza in cui si trova ore, forse a causa di tutte quelle noccioline che i bambini continuano a lanciargli dalla suddetta porta.
Lo spumino invece si sfalda giorno dopo giorno. Questa sua perdita di consistenza non è da intendersi in senso lineare – dubbio che la prima definizione potrebbe aver sortito. Lo sfogliarsi invece è quotidiano.
All’alba lo spumino è compatto, è fragrante, è incontestabilmente consistente.
Già con il volgere del giorno, tuttavia, gli strati più superficiali scompaiono, evaporando insieme alla rugiada che di notte si deposita sui campi.
A mezzodì, il calore del sole, che verticale nel cielo raggiunge la sua massima intensità, brucia le sfoglie sottostanti; esse volano via cineree, mentre un odore di bruciato appesta l’aria circostante.
Il ponentino, nel pomeriggio, porta via i livelli ancora più profondi; basta una piccola folata di vento e la sua epidermide viene spazzata lontano come una foglia secca che l’autunno divide dal suo albero.
La placida ombra della sera assorbe insospettata l’ultima tenera ed effimera corteccia, e infine lo spumino, di cui resta ormai solo il cuore, muore ignoto nel primo silenzio della notte.
Eppure, ogni mattina, lo spumino è di nuovo rinato. Spontaneo risorge dal nulla.
Per prima cosa schiaccia un pisolino, e poi comincia a riacchiappare paziente, sfoglia dopo sfoglia, tutti gli strati che aveva perso durante il giorno fino al sorgere di un’alba nuova.
Il suo è un ciclo senza fine.
Anche il destino del polimida è inesorabilmente annodato alla trama quotidiana del suo ritmo circadiano.
A ogni caffè, come succube di un assurdo processo mitotico, il polimida si sdoppia e diventa due polimida.
Questo non succede con l’aranciata o con il tè, e nemmeno con il ginseng. Solo l’amaro tostato del caffè è in grado di scatenare la reazione.
«Presto risolto!» vi viene da dire. «Basta che il polimida smetta di assumere caffè!»
Il guaio, tuttavia, è che il polimida è un devoto stacanovista, in realtà un vero e proprio fanatico, e tutto il santo giorno lavora come un pazzo. Senza tutti quei caffè che beve a litri l’utile della sua produttività subirebbe un drammatico declino, declino che il polimida, fiero com’è, non può assolutamente e orgogliosamente tollerare.
Perciò, dai con i cioccolatini con il cuore di caffè, dai con i tiramisù, dai con le granite al caffè, dai con i caffè freddi, con i caffè shekerati e con le creme di caffè, dai con il gelato al caffè e i caffè amari, con i caffè schiumati e i frappè al caffè, dai con le cialde e tutti i caffè corretti in vario modo – alla sera ci sono mille e più polimida, ognuno a lavoro a testa china –, impossibile distinguere quello originale.
Solo lui sa qual è. E metodico, solo dopo aver terminato, raggiunge, una per una, tutte le sue copie, per riassorbirle all’interno del suo zelo inguaribile e maniacale.