«Non devi mollare proprio adesso» dice l’ostetrica.
Lei guarda solo l’orologio sulla parete davanti a sé. È un cerchio perfetto, pensa.
La lancetta si muove e segna le 17.08.
Il vetro riflette i movimenti della sala parto e lei sente le palpebre che si chiudono, ma non è sonno, vorrebbe fermare il tempo.
Ha una paura terribile di partorire un corpo morto, anche se pensa che questo figlio così grosso non può morire tanto facilmente.
«Vai a chiamare qualcuno di sotto, da soli non ce la facciamo» dice l’ostetrica all’infermiera.
Lei si sente un corpo enorme, dentro c’è suo figlio, non lo lascerà andare via così facilmente.
«Non devi addormentarti proprio adesso, è pericoloso.»
Il suo corpo è schiacciato sul tavolo rigido e il dolore arriva a intervalli regolari, con pause sempre più brevi. L’enorme pancia, coperta da una camicia bianca le impedisce di vedere le sue gambe. Vorrebbe fuggire ma sa che non è dal dolore che vuole scappare.
«Non vuole neanche che entri suo marito.» L’ostetrica ha la porta alle sue spalle e il viso rosso; guarda la sala. Lei vorrebbe andarsene, portare via suo figlio, magari trovare un posto al buio nella sala parto dove la luce del neon non lascia scampo. Le finestre sono buie come occhi che non vedono, sa che fuori c’è la neve. L’ostetrica, l’infermiere e il medico sembrano decisi a tutto pur di far uscire suo figlio vivo.
Non li vede, li sente. Lei vede solo l’orologio sul muro azzurrino davanti a sé, ed è un cerchio perfetto perché ha una cornice d’acciaio; e un orologio che ha una cornice così non può che essere un cerchio perfetto, pensa.
Poi lo riconosce, è lo stesso orologio di quattro anni prima. La luce naturale entrava dalle ampie finestre della stessa sala parto lasciando capire che era estate – ammesso che le stagioni possano entrare dalle finestre di un ospedale.
Entrava il sole quel giorno dai vetri, illuminava batuffoli di cotone sporchi di sangue buttati sul pavimento come grossi coriandoli, cerotti sporchi erano come pezzi di stelle filanti di una festa vissuta da qualcun altro. Dovrebbe essere pulita una sala parto, aveva pensato, come la cornice d’acciaio dell’orologio. Attraverso la sua pancia ormai inesistente, stando sdraiata, riusciva bene a vedere le sue gambe; il suo corpo era leggero, quasi vicino alla morte. E le era sembrato un affronto, un gesto di cattivo gusto l’averla portata in una sala parto per partorire un corpo morto.
Quel giorno c’era solo un’infermiera, le teneva ferme le gambe. Un intervento da poco, aveva detto, cercheremo di raschiare via tutte le cellule morte. Sembrava soddisfatta, una contenta di far bene il proprio lavoro. Aveva detto proprio così, aveva parlato di “cellule morte”, la stessa espressione che usava sua madre quando lei era dentro la vasca e sua madre le strofinava la pelle per portarle via tutta la sporcizia accumulata durante i giochi in strada. Quelle che l’infermiera aveva chiamato cellule morte erano suo figlio, o perlomeno lo erano state fino a quando l’ecografia aveva deciso che non c’era più.
E poi si era alzata. «Puoi andartene da sola» le avevano detto, e l’orologio aveva riflettuto la sua vertigine, quel corpo ormai leggero, alleggerito anche delle cellule morte.
«Il parto si presenta difficile» le dicono adesso, ma lei ora non ha nessuna intenzione di lasciare andar via questo figlio, il figlio che porta nel suo corpo pesante.
La lancetta dell’orologio si è mossa. Sono le 17.09. Lo stesso orologio sulla parete anche tre anni prima. Ora non ricordava se l’infermiera fosse stata la stessa – quella che aveva parlato di cellule morte – né ricordava quale luce si rifletteva sul vetro dell’orologio. Però si ricordava ciò che aveva detto: «Non ce l’hai fatta neanche stavolta, hai fatto delle analisi, che so, per capire? Ma forse sarà l’età, non sei più una bambina». Lei si era guardata le gambe attraverso la pancia che, anche questa volta, aveva perso il suo volume, non aveva saputo cosa rispondere con gli occhi gonfi di lacrime e la testa ovattata.
«Questa volta l’intervento sarà più facile» aveva aggiunto l’infermiera. «Le cellule morte se ne sono andate da sole.» Il corpo, infatti, quella volta era diventato leggero in un altro modo. A piccole gocce rosse sul letto.
Due anni dopo aveva visto quello stesso orologio per la terza volta.
«Perché ti ostini così ad avere un figlio?» le aveva chiesto l’infermiera. La domanda l’aveva confusa. L’infermiera aveva preso a raschiare le cellule morte da un corpo che ormai si era abituato a sentirsi leggero. Assuefatta ormai al dolore, aveva guardato allora l’infermiera. Magari aveva dei figli che l’aspettavano a casa, aveva pensato, forse c’erano i loro disegni attaccati al frigo della cucina. Anzi, ne era quasi sicura perché l’infermiera guardava con impazienza l’orologio tra le ciocche di capelli che erano scappate dalla coda ricadendole sul viso. Magari stava per finire il turno e i figli la aspettavano davanti alla porta dell’asilo. Allora anche lei aveva cominciato a fissare l’orologio, aveva cominciato a guardare il vetro dell’orologio e le era sembrato di vedere riflessi i disegni dei figli dell’infermiera. Il vetro dell’orologio le era sembrato perfetto come sembrano perfetti i disegni dei bambini.
«Dai, vedi che questa volta ce l’hai fatta!» È lei, la riconosce. Sopra la sua pancia enorme vede le ciocche di capelli che cadono sul volto della stessa infermiera. La riconosce malgrado gli occhi che si chiudono.
L’infermiera le accarezza la testa: «Hai visto? Ce l’hai fatta». E sposta lo sguardo sulla sua enorme pancia dentro la quale questo figlio è cresciuto con determinazione.
Allora lei guarda l’orologio e le sembra di rivedere i disegni attaccati alla parete, sente che le piacerebbe poter vedere i disegni di suo figlio. Poi si lascia andare, e sente un pianto.
Guarda l’orologio. Sono le 17.10.
Ha solo il tempo di dire: «Rimani ancora un po’ con me. Fa così freddo fuori. Grossi mucchi di neve gelata sono ai bordi della strada».