Questa volta ci riesco davvero. Ho già tentato tre volte. Tre volte ho rinunciato. Per tre volte mi sono immobilizzato davanti all’aereo pronto al decollo. Il lancio col paracadute da 4000 metri non è cosa da poco. Anzi magari lo è. Ma non per me. Prova tu a non turbarti a 4000 metri e non avere niente, proprio niente, a portata di mano tra te e il suolo. Prova tu a escludere che qualcosa può andar storto. Se il sistema di sicurezza del paracadute non funziona. Se nessuno dei tre funziona. Se ti sganci dall’istruttore. Nell’aereo siamo in sette. Il pilota. Tre istruttori. Tre debuttanti. Io sono uno di loro. L’aereo ora è quasi a quota 4000 metri. Ci stiamo già preparando per il lancio. Resteremo per tutto il tempo agganciati all’istruttore. Prima la caduta libera fino a 1700 poi si aprirà il paracadute fino a terra. Ognuno è agganciato al proprio istruttore. Io al mio. Come la tartaruga al guscio. Ora è il mio turno. Il portellone è già aperto. Ci avviciniamo e ci fermiamo sulla soglia. L’istruttore mi guida. Attaccati facciamo l’ultimo controllo. Poi sento la mano dell’istruttore che mi porta leggermente la testa indietro e nello stesso momento il salto. Sono nel vuoto. Ora non c’è davvero niente tra me ed il suolo. Niente per 4000 metri. Niente di niente. Non c’è nemmeno la paura perché la paura l’hai sconfitta quando hai capito di non poter tornare indietro. Non c’è nemmeno il pentimento perché per pentirsi devi assumere di aver sbagliato e io non ho sbagliato. Allora non ho paura. Non sono pentito. Tutto ok? No. Mi manca tutto. Mi manca il controllo. Mi manca la certezza. Mi manca l’aria. No, non mi manca l’aria. Ne ho anche troppa. Troppa aria. Mi taglia. Mi avvolge. Modifica la sagoma. Mi cambia i contorni del volto. Mi invade. Troppa aria. È come quando bevi più di quello che la tua bocca possa contenere, più di quello che la trachea riesce a far passare, più di quello che i tuoi reni possono drenare. Con tutta quell’aria non mi accorgo neppure che sto precipitando. Mi convinco che tutta quell’aria mi spinga in alto. Che mi tenga a galla. Presto però scopro che sono io che sto cadendo giù. Che sono io che buco l’aria. Che sono io che costruisco una galleria nel vuoto che lunga e dritta finisce inesorabilmente al suolo. Ora metto a fuoco. Le strade. Le case. Le auto che si muovono piccole. E io lì sopra sospeso. Mi sembra di averlo già fatto. Di aver già provato quella sensazione di avvicinamento alla terra restando sospeso nel vuoto. Non c’è questa sensazione sui voli di linea. Deve essere uno di quegli inspiegabili fenomeni del cervello. Solo un momento dopo la sensazione si associa a un nome: Cattabriga. Nel pensiero appare il mio compagno di liceo, Cattabriga. Lo chiamavamo così. Senza nome. Ed è rimasto così per tutto il liceo. E poi per sempre. Per tutti. Cattabriga. Ormai viveva a Miami. A Miami aveva una moglie. Un figlio. Un cane e poi un Cessna parcheggiato al Fort Lauderdale Airport. Non lo vedo da vent’anni Cattabriga. Lo ero andato a trovare a Miami e mi ero ritrovato davanti il Cattabriga di sempre. Gigante. Ipercinetico. Iperattivo. Coinvolgente. «Domani ti porto su col Cessna e voliamo fino a Kye West.» L’indomani la mia faccia perplessa fissava l’aereo delle dimensioni di un’utilitaria con un’elica davanti poco più grande di un piatto da portata. Cattabriga passò a spiegarmi la manovra di sicurezza. La mia perplessità diventò evidente quando mi chiese di aiutarlo a portare l’aereo a mani sulla pista e a scaricare acqua dalle ali. «Cattabriga sei sicuro o mi devo preoccupare?» «Ma va. Ti sembro preoccupato io?» Il decollo fu rapido. Stentato e rapido. Appena in quota Cattabriga mi fece aprire i finestrini. «Ora rilassati e guada in basso, al resto penso io.» Guardai fuori, seduto su un sedile appeso a niente. Misi a fuoco le strade, le case le auto che si muovevano piccole. La spiaggia bianca di Miami beach. I primi isolotti. Le ville dei ricchi. Ero rapito dalla gioia di guardare il mondo con gli occhi di un dio greco e fui travolto dall’ansia di cadere in insieme a Cattabriga. Sorrido mentre ripenso a Cattabriga e ne esce un sussurro che scandisce il suo nome. È allora che dietro di me percepisco un rumore. Un movimento. L’istruttore deve aver fatto qualcosa. Lievitiamo in alto. È il paracadute. È aperto. Continuo a guardare in basso. Ora oscilliamo appesi nel vuoto con case strade e macchine sempre più nette sempre più vicine. Vedo anche il campo base. Ci sono due uomini della sicurezza incaricati di riceverci. Uno è un gigante ipercinetico. Proprio come Cattabriga. Mi sembra quasi di vederlo al bordo del campo. La stessa aria di chi si diverte a fare quello che fa. La stessa energia di chi coinvolge gli altri in quello che gli piace. Quando ci afferra per le cinghie per guidarci sorride e dice: «Bentornati. Bella discesa». Mi piace credere che sia la voce scanzonata di Cattabriga. Il mio compagno di liceo. Lo chiamavamo così. Cattabriga. Senza nome. Forse era Alberto.