Data

Illustrazione di Agrin Amedì
Nella stanza da letto entra un filo di luce. Due linee che si biforcano da una punta disegnano un cono sul letto sfatto dove giace il suo corpo. Bello, bellissimo. Di schiena. Anche quella bella, bellissima, che mi verrebbe voglia di toccarla.

Nella stanza da letto entra un filo di luce. Due linee che si biforcano da una punta disegnano un cono sul letto sfatto dove giace il suo corpo. Bello, bellissimo. Di schiena. Anche quella bella, bellissima, che mi verrebbe voglia di toccarla. Ma non posso. No, non devo. Hai detto che non devo farlo. E me lo hai detto con quei tuoi occhi che tagliano come lame. In silenzio. Sono rimasto in silenzio. Mentre li guardavo, belli bellissimi, penetrarmi, arrivarmi fin dentro al cervello, pungolare i miei pensieri, i miei ricordi, farmi salire il battito cardiaco, il cuore, il respiro, l’affanno, l’ansia, la paura. La paura di essere scoperto. No, mamma, non ho niente nella borsa. Sto andando al catechismo. Ho la Bibbia nella borsa. Solo quella. No mamma, non ho fatto niente. Io non devo fare niente. Devi esserti sbagliata perché io non ho sentito nulla. Nessun tintinnio. E non c’è niente, davvero. Come potrei mentirti. Come potrei mentire a te, con quegli occhi belli, bellissimi. Gli occhi di mamma, belli, bellissimi, che tagliano come lame e mi penetrano nel cervello e mi frugano nella borsa e ci vedono un coltello. No, due, quelli della cucina, quelli che tagliano bene, che non volevo farci niente, solo squartare le gomme della macchina del prete. Perché lui sta lì e mi cita il Levitico e l’uomo e la donna e la morte e il sangue, lui che non sa niente di niente, niente di te, niente di me e parla. Parla parla parla mentre io no, io non devo farlo. E anche adesso non parlo. Sto zitto. In silenzio. Mentre guardo la tua pelle bella, morbida, quella di mamma. E guardo gli occhi, quelli azzurri, quelli belli, ma che adesso mi fanno un po’ paura, per questo ti ho girata di schiena, perché così non mi guardi. Mentre io invece sì, ti guardo, ma non mi faccio tanto vedere, perché non posso, perché non devo. E perché se poi mi fissi con quegli occhi a me mi vien da dire che porca puttana perché mi vuoi far male con quelle lame? a me, proprio a me che sono stato zitto per tutto questo tempo, zitto e fermo a sentire le tue porcate, sì quelle che facevi con quell’altro, solo per averti, perché fossi mia, anche se era quell’altro che stringevi. I tuoi abbracci che però erano i miei, che lo sapevo che anche se non potevo e non dovevo io guardarti ti guardavo lo stesso. Come quando dalla serratura della porta della tua camera da letto sentivo. Sentivo sentivo sentivo e grugniva la bestia, sì c’era una bestia che grugniva. E allora io mi preoccupavo perché alla mamma non volevo che la bestia facesse male e perché la sentivo che gemeva, che forse piangeva, che non si capiva se rideva o se piangeva e io dovevo capire, dovevo vedere. E allora guardavo, anche se non potevo e non dovevo. Guardavo e non capivo se rideva o se piangeva. E fremevo, perché volevo entrarci lì dentro, ma non potevo e non dovevo, anche se volevo farlo. E intanto tu però mi entravi dentro con quei tuoi versetti, mi entravi dentro nelle orecchie, negli occhi, nella carne. E poi, d’improvviso, quegli occhi belli, bellissimi, quelli azzurri, si aprivano e dalla serratura si infilavano dentro ai miei, taglienti come lame. Sono belli, vero? Li vedi nello specchio come sono belli? Guardali, guardati. Non puoi non vedere quanto sono belli. Però non mi guardare così, come se mi entrassi dentro, perché lo sai che non posso sopportarlo. Non posso, non devo. Guardare e non toccare dice il prete. E infatti io non tocco, non lo faccio, non puoi dire che io lo abbia fatto. E se qualche volta l’ho fatto non era perché volessi, ma perché tu alla fine mi ci portavi, e io te lo dicevo che non ce la facevo a resistere, che ad averti guardato per tutto quel tempo mi era venuta voglia di entrarci in quella carne e che non è che potevo sempre stare lì ad aspettare mentre gli altri, tutti, stavano lì e io i grugniti li sentivo anche se non lo sapevo, anche se non me lo dicevi. E io mi chiedo e ti chiedo ma tu come fai a resistere, che lo vedi che ti vorrei baciare, ma non lo faccio, perché non posso, perché non devo, e tu stai lì che lo vedo che muori che mi vuoi baciare, che con quegli occhi belli, bellissimi mi implori, mi supplichi, ma io ti ho detto che non posso e che non devo. Però se tu continui a guardarmi così per forza io poi devo prenderti e sbatterti contro il muro e infilare le mani sotto la maglietta e attaccarmi ai tuoi capezzoli e succhiarli, succhiarli, succhiarli… Non me lo hai detto tu che era così bello quando te li succhiavo, mamma? Ci sarei stato attaccato ore e ore, a succhiare quel liquido dolciastro biancastro che usciva da tubicini nascosti e che mi faceva andare in estasi. Ma tu poi d’improvviso mi staccavi e te ne andavi e mi lasciavi e non lo so come facevi a resistere quando io piangevo perché li volevo, perché li volevo e perché non potevo resistere, anche se dovevo. Te lo ricordi, mamma? Con quegli occhi belli, bellissimi, che guardavano e che non facevano nulla. Gli stessi con cui mi guardi adesso, che pare che mi implori ma non è vero, perché non dici niente, non fai niente, come sempre, mentre io sto lì che sto morendo, il fiato corto perché in quei pantaloni vorrei infilarci altro, ma non ci riesco e se non ci riesco è perché non posso non devo. E mi fa arrabbiare che tu pensi che io non voglia, perché lo vedo dai tuoi occhi che lo pensi e che mi giudichi, ma non devi farlo perché io non ti ho mai detto che ho passato tutti questi anni ad ascoltare tutte le tue porcate aspettando solo che fossi mia, mia e solo mia, come doveva essere dall’inizio, come dovrebbe essere adesso e come non è stato mai. E io mi sono impegnato, ti giuro, per non fare, per non dire, come dice il prete, ma tu stavi sempre lì a guardarmi, a fissarmi, a penetrarmi con quegli accidenti di bellissimi occhi azzurri che mi facevano incazzare per quanto mi entravano dentro e mi scoprivano, mi facevano sentire nudo, un verme, uno di quei lunghi lombrichi che tagliavo con il filo della pala con cui rimestavo nella terra e che poi stavo lì a guardare contorcersi i viscidi pezzi del loro corpo ormai morto. Già, morto. Morto come sono io dentro e come tu non hai capito, non capisci, perché tu sai guardare solo con quegli occhi bellissimi, stupendi, meravigliosi, che dicono che mi vedono ma che in realtà non vedono proprio niente. Niente. E che c’è da vedere in un buco nero che non ha fondo, che c’è ma non doveva esserci e che alla fine è anche colpa tua se sta lì e non si può più chiudere e anzi si allarga, si allarga sempre di più e qualsiasi luce se la inghiotte, se la risucchia dentro e non la fa più tornare indietro. E tu non ci puoi fare niente mamma, proprio niente. Ti sto risucchiando dentro, mamma, e nemmeno te ne sei accorta. O forse finalmente sì.

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