Il mio errore è stato credere che avremmo avuto il tempo. A settembre, ci dicevamo, e ora settembre è qui. E tu? tu dove sei? Se mi vedessi ora, che vergogna. Se mi vedessi ora, tu che prendevi appunti quando cercavo di rispondere alle tue domande così precise, quando mi chiedevi: sì, ma come faccio a scrivere una cosa che sia davvero bella, che sia profonda? E io ti dicevo di non abusare della retorica, delle frasi spezzate. Dei troppi punti o delle troppe metafore; e tu, prendevi appunti sul quaderno: ti vedo, nell’aula, in prima fila alla mia destra, al tuo banco accanto a Daniela, con una concentrazione da bambina attenta, da bambina intelligente. E i tuoi ricci, e la tua risata che poi erompeva sempre, sempre, e ci trascinava tutti. Eravate in otto in classe, vi ricordo come in una fotografia, un anno dopo; mi pare impossibile che sia passato solo un anno, impossibile dirmi che quella fotografia non la rifaremo più. In prima fila Daria, silenziosa con quella sua aria silvestre, Monica libera come una tempesta, Daniela con gli occhi dolci e severi. Carmen splendente e saggia senza forse saperlo, Monica con la sua infanzia selvatica e la sua faccia bellissima; e poi Gabriella, la vis comica e l’eleganza, e Iacopo, unico ragazzo nel nostro gineceo, con la sua gentilezza incisiva. E tu, davanti, in prima fila. Tu con i ricci e le risate e il tuo quaderno sempre aperto. Eri felice come una bimba se portavo Emilio, il mio cane, che avevo appena preso dal canile e soffriva a restare solo in casa. Se ci ripenso ora, alla fiducia che avevi scelto di donarmi – a me che per la prima volta insegnavo a una classe, una classe di adulti, a me che avevo una paura tremenda di sbagliare, di fare una gaffe, di non potermi fidare dei manuali; ai miei consigli, ai libri che ti suggerivo, alle piccole notazioni che mettevo in margine ai tuoi testi – mi sento spezzare il cuore. Guardami: non so nemmeno scrivere la frase che avevo cominciato – adesso settembre è qui ma tu no, tu non ci sei. Scriverlo come ti avrei consigliato, senza retorica, senza abusare di punti e di metafore, questo lo so fare. Non so però evitare di piangere, Alessandra, sulla tastiera del computer che non mi importa niente se si bagna. Dentro questo computer ci sono, li ho appena riletti tutti, per cercarti – per ritrovarti, per provare ad avviare, da sola, purtroppo, il lavoro di cui ci eravamo promesse di riparlare a settembre – i testi che hai scritto per il corso di Autobiografia 1 e poi 2. Il lavoro che volevo proporti, già te l’avevo accennato, era una lunga chiacchierata, una via di mezzo fra un’intervista e una conversazione; volevo sentirti raccontare, avrei sbobinato tutto, poi, avrei trascritto le tue parole e ne avremmo fatto un testo lungo, chissà per cosa. Forse solo perché ti rimanesse, perché fosse tuo; so che non lo avresti tenuto per te, so che lo avresti voluto condividere, regalare agli altri. Tu la tua vita, la tua lotta, la tua energia risplendente, le regalavi tutte. Ti spendevi per gli altri, ce lo dicevi, anche nella primavera che ci teneva lontane e ci riuniva nelle sere di lunedì, sempre più lunghe – faceva buio sempre più tardi, tu eri sempre più stanca eppure eri lì, con noi, ridevi, c’eri, eri tu – negli incontri su Zoom di Autobiografia 2 e poi delle Signore in giallo: ci raccontavi di quello che facevi, per te stessa e per le tante persone che attraversano come te la malattia. Eri generosa con un piglio così energico, quasi perentorio: mi sgridavi perché a tuo dire mi deprezzavo – e beh, ti assicuro che ora, ora che non ci sei tu a rimproverarmi quando ho questa tentazione, ho preso a farlo da sola. Ora però non ti arrabbiare se ti dico che i tuoi testi, che ho riletto per cercarti, rendono del tutto superfluo il progetto di quella lunga chiacchierata registrata che volevo fare con te. Il racconto di te, del tuo corpo che hai ritrovato infilandoti, con un coraggio da leonessa, dentro la sua – la tua – sofferenza, l’hai scritto già tu.
Ci siamo ritrovate in un gruppetto sparuto, per Autobiografia 2; è arrivata Katiuscia, con i suoi occhi blu dietro gli occhiali che vedono tutto, l’avete accolta come un’altra sorella. Non potevamo più riunirci dal vivo, solo online, eppure passavano le settimane e cresceva un senso di magia nel piccolo gruppo che avevamo fondato sui nostri – sui vostri, per dire la verità: io ero lì solo per cercare di farli germogliare, ma con voi era facile – racconti, sui ricordi, i dubbi, i rimpianti, i sogni e le paure che condividevamo senza inibirci. Si era creata una connessione profonda, qualche volta ci pensavo e me ne stupivo. La primavera, questa primavera di isolamenti e di chiusure e di ansie, per te non è stata facile, ce ne rendevamo conto tutte, benissimo; ma tu non vacillavi, e noi con te, eravamo salde nella certezza che anche quel legame speciale che era nato fra noi ti avrebbe protetta – oggi mi sembra un’idea ingenua, eppure da qualche parte so che in qualche modo è vero, che ci siamo sostenute le une le altre, e che tu in mezzo a noi avevi un piccolo posto sicuro; ne avevi molti, di posti sicuri, di amiche e di amici che ti adoravano. Eri una persona che amava profondamente e che profondamente in risposta riceveva l’amore. Questo lo intuivo allora, ora che non ci sei più lo so con certezza, l’ho visto nel dolore e nell’amore di chi ti ha salutata. Da lontano, ci siamo abbracciati tutti, Alessandra, i tuoi amici che per tanti e tanti anni sono stati al tuo fianco sempre, fino alla fine e oltre, perché non è finita affatto, lo sappiamo; e noi, che ormai eravamo diventate le Signore in giallo. Erano arrivate anche Rossella dai mille talenti, Enrica con la sua dolcezza incredibile, Caterina con i suoi calici e il suo umorismo brillante, Ornella l’appassionata, Stefania con il suo piglio deciso, Alessia che inventava storie meravigliose da una casa nel bosco, Roberta che ci portava l’Africa da un giardino di pini marittimi; il gruppo si era allargato, aperto, senza mai incontrarci di persona avevamo creato una storia nuova, un hotel immaginario aveva preso vita. Ognuna si era inventata il suo personaggio, io avevo paura che tu ti stancassi troppo: eri bella, con il turbante cobalto, ma sapevo che eri stanca, che le medicine e le terapie ti toglievano energia. Eppure hai voluto partecipare, e ora sapessi quanto te ne sono grata. Ci hai regalato un personaggio che mi commuove, una ballerina che dopo una lunga adolescenza troppo disciplinata finalmente si scopre, finalmente è pronta a tuffarsi nella vita, a vivere tutto per la prima volta. Non osavi scriverla in prima persona, io ti ho detto: fallo, prova, e la pupa è diventata farfalla. E come per un magnetismo strano, tutti gli altri personaggi erano attratti, sedotti dalla tua Virginia; tutti sentivano la sua dolcezza, la sua gioia di vivere, la sua libertà appena scoperta, che poi, alla fine, era la tua.
Una volta vi ho dato il compito di scrivere una lettera a voi stessi. Tu l’hai scritta al tuo corpo; era una lettera bellissima. Hai scritto, nella chiusa: “L’armonia senza spigoli su cui sediamo ora è una conquista. È valsa la pena camminare tanto.”
C’è un punto all’infinito, ed è lì che ti pensiamo, dopo tanto camminare. È lì che ci pensiamo insieme, e ne è valsa proprio la pena.