La targa nera, lucida di metallo, brillava sotto le fredde luci neon della scuola superiore Mini, fiera sfoggiava una pulitissima scritta “Magazzino”. Impettito da anni si trovava accanto la porta, nera anch’essa, deteriorata dal tempo. A differenza dell’eccentrico dinamismo del brillare della targa, del lampeggiare delle luci, fredde e rotte, e del vociare degli studenti nei corridoi, la grande porta nera era immobile da anni. Nessuno studente dell’istituto aveva mai visto aprire o chiudere quella porta. Per questo tra le tante voci di corridoio che corrono in una scuola superiore, sicuramente ne spicca una in particolare, una storia riguardante quella grande, nera e usurata porta, quella misteriosa soglia.
Caro lettore, sono tentato di lasciarti così, in bilico e nel dubbio. Voglio approfittare di questo momento nel quale sei ipnotizzato e vedi nella tua mente le aule che si svuotano alla campanella, la scintillante targa nera e accanto a essa la grande porta nera.
Voglio, caro lettore, che da ora tu legga tutto d’un fiato fino alla fine. Quindi non spingerò oltre questa tortura, questo gioco di suspense, (prometto di non interromperti più, o almeno ci proverò). Ora ti lascio entrare nella scuola superiore Mini e spero che la curiosa leggenda possa interessarti, dopotutto nella scuola tutti la conoscono ma nessuno la dice.
Le prime luci dell’alba si insinuavano nei corridoi, un raggio freddo e preciso colpiva la soglia di una porta grezza, nera e polverosa. Un bidello passava allegramente il mocho, ascoltando musica di dubbio gusto, quando venne catturato e preso per la gola da quel timido raggio mattutino che prorompeva dalla finestra. Il collaboratore seguiva il corso di quella lama luminosa che fendeva la calma mattutina. Accompagnato da uno strano senso di angoscia, frastornato dall’atmosfera surreale, si accorse del filtrare della luce oltre la porta. Uno spiraglio. Era socchiusa.
Stranito l’uomo andò per chiuderla, si sentiva spaesato, come se si trovasse davanti qualcosa di nuovo, sconosciuto, dall’altra epoca; estrasse le chiavi metalliche e dopo un’attenta selezione trovò la prescelta, la lunga mano sudata si avvicinava al pomello scintillante. Il polso tozzo venne afferrato, un rumore. Un’esile mano nodosa con forza lo tirava verso il magazzino, un suono. La stretta della mano era potente. Il bidello – come fosse il più esile dei bambini – venne tirato dentro il magazzino, una parola.
«Voitheia.»
Il tono era duro, prepotente. La piccola stanza colma di scope, priva di luci e finestre, era immersa in una soffusa luce lilla. Un grande bastone era fermo, immobile, nel centro della camera, e una pietra cristallina viola, luminescente, troneggiava su di esso.
«Voitheia.»
Questa volta il bidello aveva scorto l’uomo dalla voce tanto dura. Prese una scopa, la pose contro l’altro e scoppiò a ridere, sorpreso nell’intravedere che l’intruso era estremamente diverso da come lo aveva immaginato. Piegato sulla pancia e lacrimante per il troppo ridere il bidello non aveva notato il cambio di voce del suo interlocutore, d’un tratto fattasi preoccupata e implorante, il formarsi delle rughe di angoscia sul suo volto…
D’altronde se il grosso uomo fosse andato oltre la licenza media avrebbe notato nell’ombra la singolare figura di Edipo, i suoi lunghi capelli bianchi intrecciati con la barba candita che risaltavano, per massa e colore, sul corpo secco abbronzato e la sua inconfondibile tunica rossa sgargiante. Ma non facciamogliene una colpa, in fondo non è lui il narratore onnisciente di questo racconto. Torniamo a noi.
Con voce rotta Edipo, fissando il bidello nei grandi occhi neri gridò:
«Se parakalo voithise me.»
Cessando di ridere, il grosso bidello furibondo lo fissò negli occhi e urlò più forte, con la scopa ben salda in mano.
«Chi sei, cosa vuoi?»
Come in una gara a chi alza più la voce, le frasi continuavano a correre e risuonare, sempre più confuse, sempre più mescolate.
«Den eimai edo.»
«Parla la mia lingua, siamo in Italia e neanche l’italiano sai? Immigrato!»
«Voitheia.»
«Non ti capisco, apo pou dissi entrato?»
Edipo, con le lacrime agli occhi, riconoscendo quelle parole nella sua lingua indicò il grosso bastone, statico con la sua pietra al centro della stanza. Il collaboratore non rendendosi conto che mescolava due lingue per parlare, sempre più rosso di rabbia, continuò a urlare fino a graffiarsi la gola.
«Kataramenos, come sei eisichthi?»
Dopo un attimo di esitazione si lanciò verso Edipo, minacciandolo.
«Kalo ton strato.»
Il vecchio greco prontamente si spostò; rapido confondeva la sua figura nella luce viola. Scattante disorientava il bidello. Lo fece cadere sullo statuario bastone dalla pietra lilla.
Arrivati a questo punto, caro lettore, esistono tanti possibili finali, tutti molto simili ma al idia stigmi estremamente diversi: si dice oti il modo na miliso di Edipo, quindi il greco, si sia attaccato al bidello come un virus. Contagiosissimo l’Ios si è sparso e insinuato nel dinamismo scolastico, come fosse mia astheneia asintomatica chi ne è colpito è inconsapevole di mischiare oi dyo glosses.
Per questo proteino di prendere le eventuali precauzioni prin diavaseis questo racconto, parte ton eafto sas dei guanti e una mascherina: l’isotopia potrebbe contagiarvi.
Forse è para poly tardi.