Con il trucco e con l’inganno

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Illustrazione di Agrin Amedì
Comandante, se sta leggendo questa lettera significa che io sono sceso dall’aereo e che ora probabilmente lei, io e almeno un paio di addetti alla sicurezza siamo rinchiusi in qualche infausta stanzetta dell’aeroporto di Parigi a guardarci negli occhi. Ormai, a meno di due ore di volo da casa, non mi resta che gettare la maschera e confidare nel suo buon senso.

Comandante, se sta leggendo questa lettera significa che io sono sceso dall’aereo e che ora probabilmente lei, io e almeno un paio di addetti alla sicurezza siamo rinchiusi in qualche infausta stanzetta dell’aeroporto di Parigi a guardarci negli occhi. Ormai, a meno di due ore di volo da casa, non mi resta che gettare la maschera e confidare nel suo buon senso.
Ora, io so che lei deve fare il suo lavoro e non può permettersi eccezioni ma, se sta davvero leggendo, si renderà conto di avere di fronte un semplice neo sposino sfigato e non un efferato terrorista batteriologico incappucciato… Esatto, neo sposino. Io e quella signora fuori dalla stanza ci siamo sposati lo scorso giugno. Viaggio di nozze da sogno. Los Angeles, Las Vegas, parchi americani, poi Polinesia e per concludere due giorni a San Francisco. Tutto magico, tutto splendido comandante. Tranne San Francisco visto che le uniche due cose ammirate della città sono state la stanza d’albergo e il laboratorio di analisi cliniche a due isolati di distanza. Eh sì comandante, appena tornato in terra californiana mi sono riempito di bolle. Dappertutto eh… Ora, immagini la scena surreale: io in pieno sfogo cutaneo, a più di 10 mila chilometri da casa, seduto sul lettino di un laboratorio di analisi improvvisato circondato da infermiere impallidite che fanno a gara a chi è più veloce a mettersi la mascherina e con mia moglie che scrive a mia madre: Simonetta, non ti allarmare… Ma Valerio per quali malattie è stato vaccinato da piccolo? Che poi qualunque messaggio che inizi per “non ti allarmare” equivale a una secchiata d’acqua gelata in piena notte, soprattutto se a riceverlo è mia madre e soprattutto se è piena notte sul serio, visto che a Roma erano le 3 del mattino. Ed ecco che in quel momento mi sono passate per la testa davvero troppe cose. Scriverle qui rappresenterebbe anche un buon modo per riordinarle, ma non voglio farle perdere tempo, comandante. Comunque, sta di fatto che resto sotto esame per un’ora; morbillo e streptococco danno esito negativo. Probabilmente è varicella, ma per i risultati serviranno giorni.
Nonostante la situazione tragicomica le infermiere non si scompongono e con pragmatica lucidità applicano alla lettera il protocollo di emergenza. Dapprima sprangano l’edificio per contenere l’epidemia, e poi ci sbattono fuori da un’uscita sul retro, proprio come nei film dove ci sono i posti con le uscite sul retro. Ci hanno regalato due mascherine omaggio e un laconico ammonimento: «Siete in quarantena, tornate subito in albergo e restateci per almeno 7 giorni».
Una settimana, dico dentro di me… Ma non ci siamo, qualcosa non torna. Come facciamo a restare altri 7 giorni se tra 72 ore dobbiamo essere tutti e due in ufficio a Roma?
Torniamo quindi in albergo travestiti da giapponesi con in dote due contraddittorie certezze: non possiamo restare qui ma non ci faranno neanche andare via.
La notte non chiudo occhio. Ho un prurito a intervalli irregolari, insopportabile, che mi tiene perennemente sveglio. È come se qualcuno stesse giocando all’allegro chirurgo, da ubriaco, sulla mia schiena. Cerco comunque di concentrarmi perché ho bisogno di ricapitolare: sono dall’altra parte del mondo, ho la febbre a 39, assomiglio a un apicoltore che ha raccolto il miele senza maschera e tra un giorno e mezzo devo lasciare l’albergo con mia moglie per prendere un aereo fino a Parigi per poi imbarcarmi su un altro poco dopo per ritornare a Roma… E io davvero non ho la più pallida idea se sia meglio tentare di partire con il rischio di restare bloccati in aeroporto stile The Terminal o restare a San Francisco a tempo indeterminato senza soldi, senza fissa dimora e con il concreto rischio di restare pure senza lavoro.
L’indomani chiamiamo l’agenzia, ci spiegano che l’unica speranza di partire in sicurezza è quella di farci rilasciare un permesso speciale di volo dalla clinica che ha condotto l’esame – a dimostrazione del fatto che non sono più contagioso. Anche con quel visto in mano tuttavia la scelta finale spetterebbe comunque al comandante che ha la responsabilità su tutti i passeggeri e che potrebbe quindi decidere in modo insindacabile di non autorizzare il viaggio. Dunque, ho meno di 12 ore per farmi rilasciare un documento a distanza da una clinica americana che attesti che sto guarendo dalla varicella – quando ancora non è arrivato neanche il risultato del test che la confermi davvero – e come se non bastasse mia moglie scende a prendere la cena e torna in camera con la pizza farcita all’ananas perché, così, a prima vista, le sembravano patate.
Ovviamente anche questa notte non riesco a dormire… e la colpa è più dell’ananas sulla pizza che della febbre. Decido così di trasformare un problema in un’opportunità e sfrutto l’insonnia per laurearmi in medicina su Google, specializzazione malattie infettive. Parole chiave: rush cutaneo, dermatite da contatto o atopica, herpes zoster, sintomi e decorso clinico, complicanze, trasmissione, terapia e rimedi della nonna. Dopo meno di tre ore sciolgo finalmente la prognosi. Il quadro clinico è chiaro e l’autodiagnosi conferma: è varicella. Sarei probabilmente già in grado di isolare il virus con due provette e un cotton fioc ma resto umile e prima di aggiornare il curriculum sfrutto le nozioni apprese per guardare al futuro. Numeri alla mano resterò contagioso per almeno altri 4 giorni e impresentabile ai miei simili per almeno il doppio. Un bambino sano guarisce dalla varicella in 10 giorni. Un adulto infantile ne impiega almeno 15… 17 se è anche pessimista e fatalista. Nonostante ciò dobbiamo riuscire a tornare a casa.
Abbagliato da un narcisistico delirio di onnipotenza trovo la soluzione definitiva. Per ottenere il visto sarà sufficiente inviare per mail una prova tangibile e inconfutabile della mia effettiva guarigione. Quindi sveglio mia moglie, mi faccio scattare una foto della mappa topografica che ho sulla schiena, sottoscrivo un abbonamento mensile di svariate decine di euro per un programma di editing professionale su smartphone e passo il resto della nottata a smacchiarmi la pelle. La mattina basterà inviare la foto della mia schiena in miglioramento per avere la quasi certezza di tornare a casa. Un’idea a dir poco geniale, comandante.

È l’alba e sveglio ancora mia moglie stavolta per spiegarle il mio diabolico piano di fuga. Lei è un’ottimista, comandante, è sempre positiva e intraprendente. Così le mostro tronfio di orgoglio il capolavoro che ci salverà la vita. Lei mi ascolta a capo chino annuendo ritmicamente senza neanche guardare il mio telefono e accenna un sorriso complice. Poi alza la testa. Adesso ha un’espressione strana… nel suo sguardo scorgo un mix di sincera compassione e pura follia omicida: l’occhio destro inizia improvvisamente a batterle e scoppia in una crisi di pianto, così, senza motivo. La mia idea non è piaciuta forse, mi dico.
Resto perplesso, comandante, e alla fine le dico la prima cosa che mi viene in mente, forse la più sensata partorita nelle ultime 36 ore: «Truccami allora, ci proviamo».
Ora, comandante, la prego, si metta un attimo nei panni di questa povera donna. È sposata da appena 18 giorni e si ritrova dall’altra parte del mondo a truccare in semi permanente la faccia a panettone di un semi sconosciuto insonne e instabile che solo vagamente le ricorda il marito e che con la voce roca da Batman le sussurra: «Solo tu mia cara conosci chi si cela davvero dietro questa maschera».

Il resto è storia, comandante. Sono 16 ore che viaggio con una colata di cemento sulla faccia. La metà delle bolle che non mi prudono ora mi fanno un male cane. Cammino come un cyborg di seconda mano. Ho passato sull’aereo la terza notte filata senza chiudere occhio, ho visto 4 film senza guardarne davvero neanche uno. Passare i controlli a San Francisco è stato un miracolo… E l’incubo non era ancora finito, comandante. Mancava lo scalo qui a Parigi…
Dopo tutte quelle ore di volo mia moglie mi guarda e dice: «Dai, sbrighiamoci che devo rinfrescarti il trucco». Altro strato di malta sulla faccia. Ha fatto un ottimo lavoro, comandante, ciononostante assomiglio al cattivo di Roger Rabbit.

Ci siamo. Mi avvio all’ingresso del gate, verso l’ultimo metal detector. Mi levo cappello, sciarpa e occhiali. Niente cintura. Niente di niente che possa far suonare quella macchina infernale e attirare attenzioni su di me. Stampo un sorriso sornione e distaccato sulla mia faccia da cartone animato. Passo. È fatta, mi dico. E invece no. Suona! Cado nel panico, con la coda dell’occhio guardo mia moglie; lei è pietrificata. La guardia mi fa avvicinare. Indica dove mettermi. Non incrocia neanche il mio sguardo. Mi passa il metal detector portatile sulle braccia e sulle mani. Ho la camicia fin sotto i polsi e il cuore quasi in gola. Se mi chiede di alzare le maniche per me è finita, con tutto quello che c’è sotto…
Ma non succede. Via libera. Mia moglie riprende colore. Io resto rosa antico ma sono così felice che mi viene quasi da piangere. Per fortuna resisto – con quello che è costato il trucco.
In un nanosecondo l’adrenalina accumulata negli ultimi giorni infernali va a farsi benedire. Mi siedo, siamo sull’aereo a due ore da casa.  Sono esausto e voglio solo dormire ma ancora non posso, comandante. E sa perché? Perché saranno ormai venti minuti, comandante, che lei è salito a bordo per starsene impalato a chiacchierare amabilmente con il passeggero del sedile davanti al mio e mentre parla mi guarda, distrattamente ma insistentemente. E io continuo a scrivere imperterrito, a testa bassa, facendo finta di niente. Le prometto comandante che se si toglie dai piedi e fa alzare questo triciclo di aereo io questa lettera la rifinisco per bene e gliela spedisco; in forma anonima, sia chiaro, ma gliela spedisco.
Ma niente lei non schioda e allora io non smetto, non le permetterò di scoprirmi adesso, sul più bello. Proprio sul finale. Lasci correre, comandante, e si diriga in cabina perché sono una bomba biologica sull’orlo di una crisi di nervi e se non parto io non parte nessuno, glielo giuro!

Mi agito. Sudo freddo. Poi d’un tratto qualcuno appoggia la sua mano sulla mia spalla e mi scuote: alzo la testa con gli occhi iniettati di paura. È finita, penso, mi hanno scoperto… Comandante, è lei? No, è quell’angelo dagli occhi dolci di mia moglie. Continua a scuotermi delicatamente e mi sussurra:
«Amore, svegliati, siamo arrivati»
«Davvero? Siamo a casa?»
«No, siamo arrivati a Parigi. Dai, sbrighiamoci che devo rinfrescarti il trucco…»

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