Cara Katra,
posso ancora chiamarti Tata nella lettera che ti scriverò? Chissà quante vite avrai vissuto da quando ti prendevi cura di me? E quante cose sei stata in questi anni. Operaia, madre, donna. Tu che donna non lo eri quando ci siamo incontrate per la prima volta. Avevi 18 anni. Di te ricordo i vestiti colorati e l’immancabile turbante che portavi in testa. Ricordo il tuo portamento elegante, ondulatorio, come se il tuo incedere fosse una perenne danza alla vita. Facevi girare la testa agli uomini che per strada ti fischiavano. Lo ricordo ancora. Tu li ignoravi e mi facevi un sorriso con i tuoi denti bianchissimi. La tua pelle era liscia e color cioccolato. Profumavi di essenze legnose e frutta. Quante volte ti guardavo mentre in bagno ti preparavi con cura. Usavi sempre un rametto per lavarti i denti. Lo trovavo strano. Ora so, che è il Miswak o Siwak, che nella tradizione africana si usa per l’igiene orale.
«Stai tranquilla, mentre sei a scuola nel pomeriggio, te li guardo io i cartoni animati e sì, poi ti faccio il riassunto!» mi promettevi con il tuo italiano perfetto, misto a un po’ di accento napoletano. Eri stata a Napoli poco prima, e nonostante fossi da poco in Italia avevi la capacità di riprodurre addirittura i dialetti. Trovavo così ingiusto il tempo pieno a scuola mentre tu eri a casa a guardare la tv. Ma poi tornavo a casa nel pomeriggio e la cucina era già impregnata del profumo dei tuoi piatti speziati. E in un attimo eri perdonata.
«Oggi pollo con latte e rosmarino!», e sorridevi soddisfatta. Era la tua specialità. Con mio fratello negli anni ti abbiamo imitata, ripensando ogni volta a quanto a te venisse meglio quella cremina che vi faceva impazzire di felicità.
In poco tempo, sei diventata la sorella che mancava in famiglia. E come le sorelle, dividevamo la stanza e i segreti.
Nella lettera che ti scriverò, vorrei chiederti chi delle due iniziava a parlare per prima la sera tardi.
«Raccontami una storia Katra per favore, soltanto una anche stasera» Forse ero io che così nel buio della stanza, spezzavo il silenzio, sfidando il sonno e le paure della notte. Le storie che tu conoscevi non erano le favole per bambini. Oramai lo sapevo e nonostante questo la mia curiosità superava la paura.
Avevo otto o nove anni non ricordo. Mi sentivo rassicurata dal tono della tua voce e dalla leggerezza con cui le parole mi raggiungevano dall’altra parte della stanza. E così, ogni sera un racconto seguiva l’altro. Mi raccontavi della Somalia e della guerra civile, della perdita. Mi hai detto di aver visto tuo fratello morire per proteggerti e di essere stata abbandonata dai tuoi zii. Sul tuo corpo sono state spente sigarette.
Nelle lingue eri brava anche allora. Un giorno, ti sei salvata perché hai saputo imitare alla perfezione il dialetto dei tuoi nemici. Nemici, guerra. Con l’immaginazione vedevo quello che tu mi descrivevi entrare nel mio mondo di bambina. Erano personaggi di luoghi lontani da me, lontani dai miei privilegi, che prendevano forma e riempivano la mia stanza. Ti facevo domande e tu con semplicità rispondevi, disarmata dall’empatia di una bambina. Nonostante tutto, ti scriverei che mi hai trasmesso forza, energia e voglia di vivere.
Nella lettera che voglio scriverti, ci metterei chi sono io ora. Chi è diventata quella bambina curiosa affascinata dal modo in cui ti prendevi cura di te, del tuo aspetto. Quella bambina che ti chiedeva perché dovessi farti la doccia così spesso mentre tu rispondevi: «Mi devo lavare bene, io sono cucita, sotto». Infibulazione. Ora so cosa significa. So che la Somalia è anche detto il Paese delle “donne cucite”. Me lo avevi spiegato che valore avesse per voi donne musulmane. Ma di certo non potevo immaginare che così il piacere è proibito a una donna. Nemmeno io, come te, sapevo ancora cosa significasse provare piacere allora.
Tutto per te era naturale, a te era accaduto così e, così com’era, me lo raccontavi. Come i riassunti dei cartoni animati.
Vedi, nella lettera ti scriverei che non so se una bambina è in grado di comprendere tutto quello che tu dicevi a me. Ma se lo ricordo, e lo ricordo in modo così nitido, forse qualcosa di profondo l’ho compreso. Il bisogno di condividere e di raccontarsi andava al di là dell’età. Ed è una memoria di cui sento la responsabilità perché il tuo era il racconto di una ragazza a una bambina. Il tuo era il racconto di tante bambine. E non tutte possono raccontare, così come tu hai fatto con me. Io proverei a dirti quanto tutto questo abbia influenzato la donna che sono ora, a partire dal lavoro che ho scelto. Ti direi che il mio dolore più grande è stato quel saluto improvviso. Quel patto di sorellanza infranto quando hai deciso di andare via, per muoverti ancora nella tua vita. Forse anche io, così, ero diventata una delle tue storie da raccontare a chi ti avrebbe incontrata per la prima volta. Ero una tappa del tuo viaggio.
Nella lettera vorrei darti che non ce l’ho con te per questo. Forse è stata la prima volta che ho imparato che non tutti ci sono per sempre. Ma che se per il tempo in cui ci sono, ci sono intensamente, allora va bene così. Ti direi che non importa, perché ne valeva la pena.
Se riuscirò a trovare il tuo indirizzo, forse un giorno riceverai la lettera che voglio scriverti. E dopo aver chiamato vicino a te i tuoi figli la leggerai con un gran sorriso. Il sorriso di chi non è stato dimenticato. Il sorriso di chi sa che, nonostante il tempo passato, le bambine ricordano tutto.