Come ogni sera sono rimasta da sola in sala, ad aspettare l’orario di chiusura. A meno che qualche ultimo turista ritardatario non entri di corsa nei prossimi dodici minuti, non ci saranno sorprese.
«Signorina, non vorrei importunarvi, ma non ho potuto fare a meno di notare la vostra sciarpa.»
Mi giro e non vedo nessuno, nessun tocco sulla spalla.
«Sono qui, proprio dietro di voi.»
Mi rigiro e mi ritrovo il suo ritratto a venti centimetri dal mio viso.
«È una sfumatura di giallo che non mi è mai capitato di vedere in natura, eppure io ho provato a crearne tutte le varianti possibili. Quale commerciante vi ha venduto quel tessuto?»
«Il cinese in piazza…?»
«Addirittura dalla Cina! Dovete avere conoscenze molto facoltose, signorina. Io ho alcune conoscenze in Giappone, sapete, nonostante non ci sia mai stato. Ho passato quasi tutta la mia vita in Francia, tra un viaggio e l’altro.»
«Lo so» rispondo distaccata e molto confusa.
«Non avete molta voglia di parlare, vero, signorina?»
«Non mi è mai capitato di parlare con un quadro in realtà.»
«Ma quale quadro! Sembra che basti mettere una cornice intorno a qualcosa e quello subito diventa un quadro! Molti dicono che io sia un pittore, ma non sono sicuro di esserlo. Non saprei esattamente come definirmi; so solo che dipingo, dipingo molto. Questo fa di me un pittore secondo voi, signorina?»
«Io direi di sì.»
«Oh, beh… Comunque, qui non parla mai nessuno: alcuni non possono, come gli iris o le ninfee qui di fianco, altri non vogliono: il signor Renoir, là in fondo, sta sempre per i fatti suoi, e Picasso non parla bene la lingua…»
«Ti senti solo, qui?»
«Intendete qui, affacciato su questa sala? O qui in questa stanza bianca, di questo edificio smunto, isolato nell’ormai pallida e invernale campagna francese? Parlo con i miei dottori. In realtà io parlo e loro si limitano ad ascoltare. Continuano a dire che andrà tutto bene e mi prescrivono dei nuovi farmaci ogni settimana. Sono passate così tante settimane e così tanti farmaci che a stento ricordo il colore del cielo.»
«Blu. Il tuo cielo è molto blu.»
«Molto blu…? Picasso stava dicendo qualcosa sul colore blu proprio qualche giorno fa, credo… Ultimamente mi interessa molto il giallo, ogni sfumatura di giallo, come quello della vostra sciarpa.»
«Lo so. Sono tuoi i girasoli su quella parete, vero?»
«Sì. Ma non sono pienamente soddisfatto, mi sembra che manchino di qualcosa. Gli avevo dipinti come regalo per la casa di…» si interrompe.
«Di tuo fratello.»
«Non li ha mai ricevuti, però.»
«Gli scrivi sempre molte lettere?»
Non risponde. Si ferma a pensare: il silenzio della sala intorno a me diventa un tutt’uno con il silenzio della sua stanza di sfondo; lo fisso così intensamente da farmi venire le lacrime agli occhi. Mi siedo sul divano al centro della sala, proprio di fronte a lui.
«Sei ancora triste?»
«Ancora? La tristezza durerà per sempre, signorina. L’ho scritto proprio qualche tempo fa a mio fratello…»
«Lo so. Comunque, a me non sembra che manchino di niente quei girasoli. Sono davvero un capolavoro.»
«Sapete molte cose di me, signorina.» Gli brillavano gli occhi di lacrime e di ammirazione per la mia sciarpa.
«Molta gente sa molte cose di te.»
«A quanto pare… Ma io ne so molte poche riguardo alla gente. E anche riguardo a voi, signorina, nonostante vi veda tutti i giorni.»
«Non c’è niente di interessante da sapere, davvero.»
«E allora perché voi sapete così tante cose riguardo a un vecchio rinchiuso in manicomio che butta dei colori su una tela? Cosa c’è di interessante in un soggetto del genere, signorina?»
«Molte cose molto interessanti, te l’assicuro.»
«Vi ho vista ballare ieri sera, attraverso la galleria nella sala qui di fianco, quando non c’era più nessuno.»
Io non rispondo, sono curiosa e imbarazzata allo stesso tempo.
«Quello mi è sembrato interessante. Avete imitato le ballerine del signor Degas, ma con scarsi risultati, se posso permettermi. Sapete, di tanto in tanto il signor Degas mi invita a vedere un loro saggio, poi andiamo insieme al bar del signor Renoir, anche se lui non lo sa. Vi confesso che ho un debole per quella signorina che sta dietro al bancone… Una sera mi sono ubriacato d’assenzio solo per poterle parlare il più a lungo possibile. Ve ne posso offrire un bicchierino?»
«Non penso di potere, e purtroppo sto ancora lavorando.»
«Non vi facevo così noiosa, signorina.»
«Oggi forse non sono al meglio…»
«Come avete detto? Parlate più forte o avvicinatevi, se non vi dispiace, ho qualche difficoltà a…» dice, mostrandomi l’altro lato del viso.
«Lo so» rispondo compiaciuta. «Ho detto che oggi non mi sento al meglio…»
«Qualcuno mai lo è, signorina?»
«Suppongo di no.»
«Io ve lo assicuro, signorina. Posso fare qualcosa per farvi sentire meglio?»
«Dimmi cosa stai dipingendo adesso.»
«Da qualche giorno ho iniziato un nuovo quadro con dei corvi su un campo di grano…» risponde, e sposta lo sguardo su un punto distante, alle mie spalle, e non continua.
«Non farlo, ti prego.»
Restiamo in silenzio per due lunghi minuti, entrambi con gli occhi umidi.
«Sapete anche cose che non sono ancora successe, a quanto pare» dice, rivolgendo gli occhi lucidi verso di me.
«Solo questa» rispondo piano ai suoi occhi, con voce rotta, certa che mi abbia sentito.
«STIAMO PER CHIUDERE! SPEGNI TUTTO E VAI A CASA, CI VEDIAMO DOMANI. CIAO!» urla il mio collega dal fondo della sala.
Mi alzo, appoggio la sciarpa sul divano e mi avvio verso le scale.
«A domani, Vincent.»
«Sa anche il mio nome…» dice fra sé.