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Illustrazione di Agrin Amedì
Mi resi conto che c’era qualcosa di strano quando abbracciai mia madre. Ero distesa sul letto, ancora stordita dall’anestesia. Una flebo pendeva dal mio braccio sinistro, e sentivo la canula che pigiava dentro la carne.

Mi resi conto che c’era qualcosa di strano quando abbracciai mia madre. Ero distesa sul letto, ancora stordita dall’anestesia. Una flebo pendeva dal mio braccio sinistro, e sentivo la canula che pigiava dentro la carne. Mia madre mi baciò la fronte. I suoi capelli caddero sui miei occhi e poi mise la testa nell’incavo del mio collo. Le cinsi la schiena con il braccio, e poggiai il volto sui suoi ricci argentati. Inspirai profondamente, e non sentii niente. Mi sarei aspettata di venire circondata da quell’odore di muschio speziato che era rimasto immutato negli anni, e che mi riportava indietro a quella volta che ero a giocare ai giardinetti e venimmo sorprese da un temporale e lei mi prese in braccio, sotto il suo cappotto, stringendomi contro il suo petto, correndo verso la pensilina dell’autobus. Ma lì, distesa su quel letto di ospedale, per quanto il mio naso affondasse nei suoi capelli, non riuscivo a ritrovare quell’odore. Mi riaddormentai. 

Quando ripenso all’ospedale, mi pare che si sia trattato di un sonno continuo, interrotto solo da alcuni brevi momenti di veglia. Quando aprivo gli occhi, mi ritrovavo in quella stanza asettica, con le lenzuola bianche e i muri verdi, ma le mie narici non percepivano nessun odore che potesse assimilare quel luogo a un ospedale. Non la puzza di disinfettante, di piscio, di cibo insipido che mi mettevano sotto al naso due volte al giorno. O almeno io all’epoca pensai che fosse insipido, perché ancora non sapevo che da lì in avanti tutti i cibi per me avrebbero avuto lo stesso sapore. Me ne accorsi quando mia cugina passò a trovarmi e mi portò, di nascosto dai dottori e dalle infermiere, dei cioccolatini. Erano quelli alla nocciola che piacevano a me, ricoperti da uno strato di praline. Quando ne portai uno alla bocca, rimasi sorpresa da quella consistenza che non avevo mai notato prima. Era come masticare un pezzo di cartone: sentii i denti che stridevano contro la cialda e poi un liquido melmoso che mi impastava la lingua. Presi una salvietta e lo sputai. Mia cugina non si scompose: «Ho fatto male a portarteli, sei ancora convalescente», disse.
La consapevolezza di aver perso l’olfatto arrivò lentamente. In quei giorni, le poche volte in cui ero sveglia, la mia attenzione era rivolta alla schiena, pervasa da fitte di dolore, o al fianco sinistro, dove i punti mi tiravano la carne. Un giorno che il dottore venne nella mia stanza per il check up quotidiano, tra l’elenco di un dolore e un altro, aggiunsi anche questo. «Mi pare di non sentire gli odori» gli dissi. Lui era seduto accanto a me e prendeva appunti. La sua penna si fermò. Mi disse che avevo preso una brutta botta, e che poteva trattarsi di una conseguenza del trauma cranico. «Ricorda niente del giorno dell’incidente?». No, non ricordavo niente. Neanche quello successo il giorno prima? No, neanche quello. L’ultimo ricordo che avevo risaliva a quando ero andata al corso di Diritto Romano, e poi in palestra con Claudia per la lezione di spinning, e quindi era un lunedì. Sapevo che l’incidente c’era stato di giovedì perché me lo aveva raccontato mia madre. Pare che stessi andando in bicicletta e che fossi stata investita sulla rotonda che dà su via Podgora. La persona al volante era scappata, e un paio di signore che stavano portando a spasso un cane avevano assistito all’incidente e mi avevano soccorso. Non erano riuscite a prendere la targa della macchina, e non avevano riconosciuto neanche il modello. Si ricordavano solo che era blu scuro. Però a me tutto questo era estraneo. Il dottore continuò a scrivere sulla sua cartellina e mi disse che avrebbero fatto degli altri accertamenti.
Quegli accertamenti furono fatti e mi venne diagnosticata un’anosmia. Il mio olfatto se n’era andato. Una parte del mio cervello era stata danneggiata dall’incidente e no, non c’era la speranza che potessi tornare come prima. I miei genitori non furono particolarmente scossi dalla notizia. «Non potrai mai fare la sommelier, ma almeno te ne sei andata dall’ospedale camminando sulle tue gambe» mi disse mio padre mentre mi riportava a casa in macchina. La cosa che a loro premeva di più era capire come avrei fatto a vivere senza milza (cosa che, ad oggi, posso dire non essere così complicato). Stilarono l’elenco degli esami del sangue che avrei dovuto fare, dei controlli periodici ai quali mi sarei dovuta sottoporre. Li vedo ancora, in cucina, seduti a tavola con in mano il calendario e i documenti dell’ospedale, che parlottano tra loro programmando tutte le prossime mosse. Secondo loro, la perdita dell’olfatto era ben poca cosa se paragonato all’asportazione della milza. Mi resi conto che non era così già il giorno in cui tornai a casa. Come mio padre aprì la porta, mi venne incontro Paride, il nostro vecchio labrador che, scodinzolando, cercò di saltarmi addosso, allungando le zampe verso di me. Mio padre lo prese per il collare lo allontanò, ma io feci in tempo ad accarezzarlo sulla schiena. Il suo pelo era ispido, duro. Probabilmente non veniva lavato da giorni, da prima del mio incidente. Mi portai la mano alle narici ma non sentii niente. Ero sicura che la mia mano puzzasse, conoscevo il pelo del mio cane, eppure non percepivo nessun odore. E se puzzassi anch’io?, pensai. E se l’unica a non rendersene conto fossi proprio io? Andai a farmi una doccia, nonostante le proteste di mia madre che temeva che mi bagnassi i punti e i cerotti (che pure erano impermeabili), e che si calmò solo dopo aver avvolto il mio busto in non so quanti strati di pellicola trasparente. Il mio corpo venne invaso dal getto d’acqua. Aprii lo shampoo; una melma blu, inodore, scivolò sulla mia mano. Me la misi sui capelli. La melma si trasformava in schiuma mentre io massaggiavo la testa, prima con i polpastrelli e poi con le unghie. La cute bruciava, ma io dovevo essere pulita, volevo essere pulita. E se quella melma avesse avuto l’odore dello sterco, come avrei fatto a rendermene conto? Le mie dita continuavano a premere sulla carne, che mi frizzava, mi faceva male. Mi fermai solo quando vidi il sangue sui polpastrelli.
Da quella volta, iniziai a lavarmi i capelli tutte le mattine. Il pensiero di uscire di casa e di ammorbare con il mio tanfo la gente intorno intorno a me che avrei trovato sull’autobus, all’università o anche semplicemente incrociato per strada, mi faceva venire l’ansia. Dovetti anche fare uno sforzo per ricominciare a mangiare. Mia madre cercava di preparami cibi che potessero essere adatti a quella che lei chiamava la mia “nuova condizione” (vale a dire essere senza milza), ma ormai il mio senso del gusto era totalmente sballato. Riconoscevo se un cibo era dolce, oppure salato, ma non riuscivo più a sentire il sapore della fragola nel gelato che un’amica mi aveva portato un pomeriggio che era venuta a farmi visita, oppure il finocchio della tisana che continuavo a prepararmi la sera.
«Non puoi mangiare solo quello che ti piace» mi disse una volta mia madre presa dall’esasperazione. Ma il problema era proprio quello: non era una questione di gusto, non più. Della carne mi infastidiva la consistenza, il sentire quei filamenti mollicci in bocca, mentre avrei mangiato carote a volontà solo per lo scricchiolio che facevano quando le masticavo.
Su internet trovai dei siti dove persone come me raccontavano la loro vita senza odori. C’era chi non riconosceva più il marito e non riusciva più a fare l’amore con lui; c’era un pasticcere che aveva dovuto lasciare il lavoro; c’era chi non riusciva a dormire la notte e si alzava dal letto in continuazione per la paura di aver lasciato il gas aperto e di non riuscire a sentirne il puzzo. Nessuno di loro aveva più ripreso l’olfatto. Le loro fobie iniziarono a diventare le mie: sognavo Michele, il mio ex ragazzo, che urlava che non potevamo più stare insieme perché il mio odore lo nauseava, oppure che la casa andava a fuoco perché mi ero dimenticata uno sformato nel forno acceso.
Continuai così per circa tre mesi, fino alla notte in cui sognai mia nonna. Eravamo nella sua cucina, con la porta finestra aperta che dava sul giardino. Era mattina, ed era estate. In casa c’eravamo solo noi due. Aveva un grembiule logoro che una volta doveva essere stato verde ma che ora pareva giallognolo. Stava ritta davanti al tavolo e tagliava delle mele a spicchi finissimi. Io ero davanti a lei, in ginocchio sulla sedia, a fissare la lama che affondava nella polpa. A un certo punto, mia nonna poggiò il coltello sul tagliere. Prese uno spicchio di mela e me lo mise in bocca, come un’ostia. Appena si poggiò sulla mia lingua, sentì un’esplosione di sapore attraversare la laringe, arrivando fino al naso. In un momento, gli odori della stanza mi invasero: quello caldo della torta che stava cuocendo in forno, il profumo dell’erba secca che veniva dal giardino, persino la puzza di Ciro, il vecchio gatto che sonnecchiava sulla poltrona. Mi svegliai che avevo ancora le papille pregne del sapore della mela. Senza aprire gli occhi, affondai la faccia sul cuscino e inspirai profondamente: ancora nessun odore. Eppure non era ancora tutto perduto. Quegli odori c’erano, erano stati con me fino al mio risveglio, e quindi dovevano essere lì, da qualche parte. Decisi di non dire niente a mia madre che mi aspettava in cucina davanti alla televisione sorseggiando il caffè. Continuava a preparare la moka da tre persone, anche se io ormai non lo bevevo più. Passai la giornata in biblioteca con Claudia ma i miei occhi fissavano il libro senza vederlo. Che quanto accaduto quella notte fosse stato un brutto scherzo del mio cervello? L’ultimo assaggio di qualcosa che era svanito per sempre? E invece no. Anche quella notte fu pervasa dagli odori. Non ricordo precisamente che cosa successe, ma so che ero in una piscina coperta e la puzza di cloro mi entrava nelle narici. Partecipavo a una gara e nuotavamo a coppie, anche se sarebbe più corretto dire che quello che nuotava era solo uno, mentre l’altro gli stava aggrappato alla schiena come un koala. Non vedevo il viso della persona che mi portava sulle spalle, ma riconobbi in quell’odore di pelle bagnata mio cugino Tommaso.
I sogni continuarono e ogni mattino mi svegliavo con le narici piene di odori. Che cosa significava? Che stava per tornare l’olfatto? Durante la visita di controllo il mio medico non mi lasciò grandi speranze: sì, ogni tanto l’olfatto può tornare, ma quello non sarebbe stato il mio caso, visti i danni permanenti che avevo subìto. Più il tempo passava, più io andavo a dormire con la curiosità di scoprire cosa sarebbe successo nel sonno: cosa avrei mangiato, chi avrei incontrato, che tempo ci sarebbe stato.
Col passare degli anni, poi, gli odori ho iniziato a inventarli: la casa dove mi sono trasferita, nei miei sogni profuma di incenso e fieno, anche se è solo un appartamento che dà su un viale, e forse è più probabile che puzzi di smog. Il mio profumo, che metto tutte le mattine dopo la doccia, odora di cuoio e muschio bianco. Mia figlia, che è nata un anno fa, sa di giglio e borotalco. Non so se sia davvero così, non lo saprò mai. Ma quando mi addormento accanto a lei, mi trovo in una stanza dalle pareti azzurre, seduta su una poltrona, e un filo di luce che entra dalle persiane semi aperte.

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