Copenhagen

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Illustrazione di Agrin Amedì
Quando piove a dirotto è diverso, senti le gocce che ti scendono addosso veloci passando per ogni cavità e ogni terminazione nervosa del tuo corpo per poi toccare terra lasciandosi dietro una scia che ti fa scuotere la colonna vertebrale in piccoli fremiti che ti shakerano tutto.

Quando piove a dirotto è diverso, senti le gocce che ti scendono addosso veloci passando per ogni cavità e ogni terminazione nervosa del tuo corpo per poi toccare terra lasciandosi dietro una scia che ti fa scuotere la colonna vertebrale in piccoli fremiti che ti shakerano tutto. Senti i vestiti che si attaccano come manifesti incollati alla tua pelle, freddi, scomodi, soffocanti. A ogni passo senti il rumore dell’acqua che ti è entrata nelle scarpe, fai lo stesso fracasso di una goccia che cade in una enorme cisterna sotterranea risuonando per diversi minuti. I capelli, se hai il privilegio di averne ancora, diventano sottilissimi e si spalmano in testa dandoti l’aria di un naufrago che non ha mai visto il mare, neanche da lontano, anche perché finire su un’isola deserta in giacca e cravatta non è molto verosimile come storia; no, la storia che sei un lupo di mare non reggerebbe affatto.
Con la pioggia a dirotto tutti quelli intorno a te corrono veloci come elettroni impazziti per andare verso un riparo sicuro e non si curano se ti piantano un ombrello con la punta di frassino nel cuore, non sentono empatia per te che sei nella stessa situazione, non sentono che tu, come loro, stai affrontando la tempesta.
Ho provato diverse volte queste sensazioni, però non come stavolta: ho perso l’ombrello, mi è caduto scorrendo attraverso la mano destra poco prima che la mia valigetta da lavoro subisse la stessa fine scorrendo attraverso la mano sinistra; ho visto entrambi questi oggetti sempre uguali da anni, consueti, ben affiatati tra loro che sono caduti a terra insieme e si sono incagliati tra il marciapiede e la strada come se si fossero poggiati sul fondale marino a diverse miglia di distanza dalla superficie. Dal momento in cui l’ombrello ha iniziato la sua rapida discesa verso il suolo, io ho sentito di essere completamente fradicio e pian piano sono diventato sempre più liquido fino a passare attraverso la griglia del tombino e scendere velocemente verso le fogne, provando quel brivido sulla colonna vertebrale molto più insignificante rispetto al fatto di percepire l’acqua nel naso, negli occhi, nella bocca, senza riuscire a passarmi le mani sul viso per vedere meglio quello che accadeva perché le mie mani, in fondo, erano acqua e quindi non potevano fare niente.
Ero a Madrid, Plaza Sant’Ana, il luogo prescelto per iniziare, pare.
Avevo da poco fatto colazione; per fortuna bevo solo un caffè lungo quindi non ho avuto problemi di indigestione a contatto con l’acqua fredda e sudicia del tombino. Io e Maria José ci eravamo salutati con la solita calorosa indifferenza di una coppia che si è sposata perché io ero ritenuto il padre amorevole dei suoi figli che si sveglia la notte, che ha casa, che cucina, che pulisce e che sopporta una vita di monogamia; lei invece era la madre dei miei figli perché era precisa, attenta, sempre molto veloce nel risolvere i problemi, amante della mia casa, delle tazzine da caffè, delle tende color crema, ma entrambi sapevamo che nessuno dei due aveva incontrato la propria avventurosa e passionale anima gemella. Quando ho cambiato stato, da solido a liquido, forse anche per la temperatura molto bassa della pioggia, ho pensato: Finalmente qualcosa di nuovo, senza far file inutili a una cassa di un centro commerciale!
Mi sono ritrovato in quel vortice, sbattuto da un lato all’altro della fogna, anche se ero in forma liquida non era una bella sensazione, era umido, freddo, maleodorante. Non so quanto tempo sia durato il mio viaggio, non lo posso dire con certezza però è stato un tragitto molto lungo, paragonabile forse al tempo che impiegavamo io e mia madre per arrivare a Cadice ogni Agosto con la sua Seat Marbella per andare a trovare i nonni. Anche in quella occasione sentivo la mia schiena bagnata e i vestiti attaccati alla pelle come manifesti, ma era perché si sudava, soprattutto quando arrivavamo a Siviglia. L’aria condizionata nelle macchine non era diffusa, men che meno sulle utilitarie, quindi dovevamo sopportare quei viaggi con il sole fermo e alto che ci fissava luminosamente fino a sera tarda.
Nel tunnel incantato delle fogne invece era buio pesto, nonostante mi fossi scomposto, avevo ancora gli occhi, ma tanto erano inutili e senz’altro bagnati. Provavo a osservare, a osservarmi, ma niente, sentivo solo un gran frastuono dell’acqua che scorreva velocissima e che sbatteva ovunque; un rumore assordante, infernale, un rumore bianco compatto e costante, come quel suono emesso dai vecchi televisori quando i canali non sono sintonizzati, solo che questo sembrava un televisore con delle supercasse a tutto volume.
Mentre scorrevo anche io insieme al fiume in piena, ho visto in lontananza una punto di luce che pian piano è diventato un cerchio, poi un cerchio ancora più grande, poi una sfera e infine un orizzonte tagliato solo da grate. Luce, suoni di voci. Il rumore bianco era cessato, non ero più nell’acqua, non ero più trascinato da quel torrente impazzito. Vedevo persone di fronte a me, bambini biondi, uomini eleganti, donne alte e slanciate.
Mi sono guardato, vedevo le mie mani. Mi sono toccato, ero vestito, asciutto. Di fronte a me c’era la vetrina di un negozio che vendeva biscotti, una marea di biscotti, di tutti i tipi, ed era pieno di persone che con i sacchetti trasparenti facevano diverse composizioni per provare ad assaggiarli tutti: l’odore del burro e del cioccolato arrivava fino al mio naso. Mi sono specchiato alla vetrina, ora ero bionda, alta, sulla quarantina, naso a punta, dita molto curate, ben vestita, bel corpo, io avrei avuto più di una notte di sesso con me.
Ero a Copenhagen, lo avevo letto su delle cartoline di un negozio di souvenir, ero un’altra, ero lontana da Madrid. La prima cosa che ho pensato di fare era di non chiamare Maria José, in fondo ero disperso e non mi avrebbe mai riconosciuto così, tanto valeva non farsi sentire, leggere i segni di questo cambiamento e provare a vivere questa rivoluzione nel miglior modo possibile. Da solo. Da capo. Fino alla prossima pioggia.

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