Storia di un notturno nostalgico

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Illustrazione di Agrin Amedì
La pesante porta metallica del locale si confondeva nel buio della strada. Era una sera d’inverno. Il vento tirava via foglie, cartacce, resti di una giornata ordinaria. Doveva far freddo. Lui non poteva saperlo. Non sentiva più alcuna parte del corpo.

La pesante porta metallica del locale si confondeva nel buio della strada. Era una sera d’inverno. Il vento tirava via foglie, cartacce, resti di una giornata ordinaria. Doveva far freddo. Lui non poteva saperlo. Non sentiva più alcuna parte del corpo. Né poteva sapere che aspetto avesse. Ma amava immaginarsi nei suoi abiti preferiti. Nel pesante cappotto di lana scura, con il mento nascosto nella sciarpa ruvida. Il cappello, quello no, non poteva soffrirlo. I suoi capelli, folti, corvini, li aveva sempre voluti liberi. Senza freni. Ora li avrebbe persi tutti. E non per vecchiaia. Le sue mani non avrebbero mai sofferto di artrosi. Ottimo per un pianista, si sarebbe detto. D’altro canto, in quel preciso istante, la sua pelle andava perdendo consistenza e forma. I suoi organi interni si liquefacevano, ragion per cui doveva emanare un fetore di decomposizione. E di questo si dispiaceva. Ma in fondo, poco importava. La completa assenza di corpo gli dava l’assoluta libertà di immaginarsi come preferiva, avvolto in una luce azzurrina. In un odore acre di sudore, alcol e fumo. Un unico pensiero lo turbava. Di sicuro non l’incertezza del futuro. Non se ne era preoccupato da vivo. Figurarsi ora che il tempo aveva cessato di esistere. Ma la nostalgia di quel posto. La nostalgia di quella porta, scura, pesante, metallica. Quella nostalgia gli serrava qualcosa di indefinito, simile al cuore che non batteva più. E al pensiero del suo piano abbandonato al centro del palco, solo, senza mani, senza piedi, si struggeva peggio di quanto avrebbe fatto per un figlio. Così, senza forma, inconsistente, fissava – ma come poteva senza occhi? – quella porta. Uno, due, tre minuti. O forse ore. Come sempre, come prima, assaporò l’attesa, l’attimo in cui, entrando con il passo sicuro del padrone di casa, tutti lo avrebbero riconosciuto. Quindi, buttando via la sigaretta e l’ultima immaginaria boccata, entrò.Sentì tutto in un lampo. Un vento di improvviso caldo e color del tramonto l’aveva investito. Casa sua non era vuota. In una luce ambra e verde, bassa, abitata da lente spirali di fumo, gli uomini sedevano scomposti, con la cravatta allentata e le maniche di camicia rimboccate. I gomiti appoggiati sulle ginocchia, la barba di fine giornata lucida, i capelli che perdevano la loro compostezza. E poi coppie di innamorati, coppie annoiate, coppie clandestine. Le donne fumavano, bevevano, attente a non portar via il rossetto o che il caldo non sciogliesse loro il mascara. Le schiene nude, dritte, scostate dallo schienale. Nell’attesa dell’esibizione le voci si accavallavano, i bicchieri tintinnavano, gli sguardi seguivano traiettorie inaspettate. Nessuno lo riconobbe. Nessuno lo vide entrare. Tutti stavano tesi al limite della notte. Il tempo esisteva ancora per loro, si disse, e li rendeva famelici. Famelici com’era stato lui. Ora che stava immobile, un sasso in mezzo a un fiume in piena, una tristezza nera lo invase. Desiderò una lacrima, ma non ne aveva. Desiderò di morire, ma non poteva. Desiderò arrivasse il giorno, il sole, un caffè, il cielo ancora incerto, la piega del cuscino, la schiena indolenzita, la sua faccia da sonno: desiderò domani, disperatamente. Poi sentendosi esplodere desiderò l’unica cosa che poteva ancora desiderare. Nell’ombra del palco vuoto, vide il piano. Sembrava navigare sulle assi del parquet. Sospeso, nero e lucido. Le luci del palco erano ancora spente. Ma lui sapeva che  improvvisamente tutto intorno al piano si sarebbe fatto buio. Tutto tranne quel cono di luce gialla puntata sullo sgabello. E da lì lui avrebbe osservato il suo pubblico. Le sigarette come lucciole rosse. Qualche colpo di tosse, una sedia appena spostata. Avrebbe aspettato. Prima di appoggiare la mano destra sui tasti, sentirne la resistenza sotto i polpastrelli, abbassare le dita per il primo accordo. Nel silenzio assoluto il suono, vibrante, limpido, lo avrebbe colto di sorpresa. E avrebbe colto di sorpresa anche loro, come se il silenzio nel quale li aveva lasciati ad aspettare fosse infinito. Se fosse stato vivo sarebbe andata così.
Ma ora, mentre scivolava tra i tavolini, mentre un cameriere gli sfrecciava incurante davanti e una donna, inconsapevole, lo sfiorava, continuava a chiedersi come avrebbe fatto. Più si avvicinava a quella sagoma nell’ombra più il dubbio di una dannazione eterna lo angosciava: avere lì davanti il piano, e non poterlo suonare. Quando furono uno di fronte all’altra si bloccò. Se avesse avuto le mani sarebbero state talmente sudate da scivolare sui tasti. Se avesse avuto il cuore, il battito gli avrebbe riempito le orecchie. Come un innamorato al momento del primo bacio, stava a pochi passi dall’oggetto del suo amore e studiava come avvicinarglisi, come tentare la prima mossa, senza spaventarlo o guastare l’atmosfera. Così, guardingo, cauto, si avvicinò allo sgabello e lentamente, timoroso di cadere, si sedette. Sentì la pelle del cuscino adattarsi rumorosamente come se lui avesse di nuovo peso. Sentì il torace sgonfiarsi, improvvisamente rilassato, come se avesse di nuovo un respiro. La distesa bianca e nera dei tasti gli si aprì davanti, all’altezza che conosceva. Poggiò su di essi per prima la mano destra. Si stupì di trovarli freddi. Lisci. Esattamente come dovevano essere. Come sempre, sostennero il peso delle sue dita. Come sempre, lui si voltò verso il pubblico. L’alcol produceva i suoi effetti. Il tono della conversazione si era alzato, animato da improvvisi scoppi di risa e qualche imprecazione. Il fumo aveva preso ad addensarsi in uno strato spesso che offuscava le lampade color oro brunito. Un uomo indicò il palco e guardò l’orologio. Nessuno lo vedeva. Nessuno sapeva che era proprio lì sullo sgabello e che con l’indice della mano destra carezzava un tasto e continuava a stupirsi di trovarlo come doveva essere. Avrebbe potuto attendere un tempo infinito che lo guardassero e non sarebbe accaduto. E neppure lui poteva permettersi di aspettare così tanto. Quindi, chiudendo gli occhi, strizzandoli come chi sa che sta per farla grossa, suonò la prima nota.
Un suono vibrante, limpido, lo sorprese. Lo assaporò e lo lasciò scendere come un gusto agrodolce che solletica la lingua e nasconde gli altri. Così quella nota si infilò, scivolando, nel brusio degli altri suoni. Staccandosi, cristallina. Tenne gli occhi chiusi e sentì le mani aprirsi alla melodia che amava, agli scrosci di note che erano cascate, laghi immobili. Erano strade affollate e ritiri pensosi. Risvegli d’autunno e ripari dalla calura estiva. Perché se la vita gli era stata portata via, lui sapeva ancora dove ritrovarla, come crearla in un tutt’uno di tasti e pedali e corde. Il calore cominciò a scorrere là dove erano le braccia, a risalire su fino alla base di quello che doveva essere il collo. Poteva sentire il colletto della camicia solleticargli la base della nuca. Qualcosa di umido – si sarebbe detto sudore – imperlargli i peli delle braccia e del petto. La punta dura delle scarpe di vernice premere sulle punte dei piedi ogni volta che schiacciava un pedale. I muscoli della schiena si contraevano e le labbra si serravano. La sua musica, la sua creazione, sua e del suo piano, lo aveva riempito per intero. E quando la melodia ebbe compiuto il suo viaggio, si fermò. Come gocce dopo un temporale le ultime note risuonarono nello stagno. Le ascoltò cadere in un buio assoluto nel quale la notte di lucciole e stelle ancora esisteva. Intorno tutto era silenzio. Nessun brusio, nessun bicchiere, nessuna sedia. Pensò di essere morto, di nuovo. Di essere finito in un’eternità vuota e scura. Ma quando aprì gli occhi una luce abbagliante gli stava puntata sul viso costringendolo a voltarsi verso il pubblico. Il suo pubblico. Erano tutti lì. Fissavano il piano. Fissavano il vuoto. Persi nella sinfonia che teneva insieme i pezzi scomposti delle loro vite confuse. Al limitare della notte si guardarono dentro e piansero, per gioia o per rimpianto, per rabbia o pentimento, le lacrime discrete che a lui mancavano. Sorrisero sperando nel domani che per lui non esisteva. Al limitare della notte, lui fu di nuovo con loro. Accarezzò i tasti promettendo al piano di tornare. Attraversò il silenzio che come il fumo si addensava tra le luci della sala. E uscì, avvolto in una luce azzurrina, in un odore acre di sudore, alcol e fumo al di là della pesante porta metallica. Nel buio di una strada d’inverno, udì un applauso. 

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