Entrando nella reception della grande azienda, alcuni salutano e altri no, ma tutti lasciano la porta aperta. Il vigilante fa avanti e indietro per chiuderla e mi guarda scocciato, come se fossi anch’io parte di quel flusso inquieto, come se non fossi inchiodata in sala d’attesa. Sto aspettando che la responsabile delle risorse umane venga a chiamarmi, oggi è l’ultimo giorno di selezioni. Dovrebbe essere il mio turno a momenti. Sono qui da soli dieci minuti, eppure mi sembra un’eternità. La grande azienda è il posto dove tutti vorrebbero lavorare: un ambiente internazionale, ottimi stipendi, possibilità di fare carriera. Ripeto mentalmente tutti i motivi per cui desidero essere lì, mentre sento le palpebre piegarsi sotto il peso della mia notte insonne. Ma è solo un attimo, all’improvviso sento il cuore battere più veloce e gli occhi spalancarsi: è l’adrenalina che mi aiuta a restare sveglia. Torno a osservare il via vai davanti a me, in questi pochi minuti ho già visto passare una grande quantità di persone.
Mentre li guardo penso all’acquario di mio padre. Un giorno è arrivato a casa con questo grande oggetto di vetro e lo ha posato sul mobile all’ingresso, ignorando lo sguardo contrariato di mia madre. Dentro c’erano pesci di ogni colore e forma. «Guarda quanti pesci, Mary» mi diceva, indicandomi la moltitudine saettante al di là del vetro. «Non sono meravigliosi?»
All’improvviso, una signora in tailleur nero sfreccia veloce verso il desk della reception, quasi planando sui tacchi a spillo. Sbraita qualcosa alle ragazze della segreteria, sembra nervosa, poi se ne va, sparisce dietro le porte automatiche di un grande ascensore.
A dire la verità, a me quell’acquario proprio non piaceva. Mi incuteva una sorta di terrore. Ogni volta che entravo in casa ero costretta a vedere quei pesci scattanti, nervosi, che si aggiravano per l’acquario come in cerca di qualcosa. E poi i pesci mi mettevano una strana paura, con quegli occhi fissi, inespressivi. Avrei di gran lunga preferito che mio padre portasse a casa un cane (o qualsiasi altro mammifero), e invece no, il mio animale domestico aveva squame e pinne affilate.
Il vigilante fa per chiudere per l’ennesima volta la porta, ma viene bloccato da un uomo basso e smilzo. Deve essere uno importante, perché dietro di lui arrivano correndo una schiera di ragazzi, forse i suoi assistenti, con fasci di documenti in mano.
C’era un pesce particolarmente spaventoso nell’acquario. Il Cryptoheros nigrofasciatus. Ovviamente all’epoca non sapevo il suo vero nome, per me era solo il pesce cattivo con le strisce. Era piccolo ma tremendamente aggressivo, ogni volta che usciva dalla sua tana tutti gli altri pesci cominciavano a saettare qua e là per evitarlo.
L’uomo smilzo avanza nella reception, e le persone si spostano per farlo passare. Sono movimenti quasi impercettibili ma che non lasciano spazio a equivoci. «Stagli alla larga» penso mentalmente, ma senza riuscire a distogliere lo sguardo.
Poi una volta vinsi un pesce rosso, alla fiera di paese. Era piccolo e tranquillo, poteva stare per ore dentro la sua boccia di vetro senza muovere una pinna. Certo, aveva anche lui squame e sguardo vacuo, ma guardandolo riuscivo a provare almeno un po’ di sollievo.
Guardo l’orologio, sono già le 10:00. Il colloquio era per le 9:30, perché ci mettono tanto? Mi agito sulla sedia e con la coda dell’occhio sono attratta da qualcosa. Il tipo smilzo mi sta fissando. Guardo ancora una volta l’orologio, nervosa. Sento dei passi avvicinarsi.
E poi un giorno mia madre decise che avere due acquari era troppo, facevano troppa polvere. Così mise Orlando, il mio pesce rosso, nel grande acquario. «No mamma! – le urlai, quasi piangendo – Non potrà mai sopravvivere lì dentro.» I passi che sento sono proprio quelli del tipo smilzo, sta venendo verso di me. La cosa mi rende nervosa, ma non riesco ad alzarmi dalla sedia. E infatti Orlando non si trovò bene, fu subito attaccato dal brutto pesce con le strisce. Io lo guardavo come si guarda un condannato a morte che sta aspettando l’accetta del boia. «Povero Orlando, – pensavo con apprensione – non ce la farai.» Ma Orlando pareva tranquillo e imperturbabile – come cerco di essere io in questo momento, mentre lo smilzo mi parla in tono viscido e allusivo – anche quando il brutto pesce a strisce ha cominciato a giragli attorno, con aria minacciosa.
Lo smilzo sta cercando di mettermi a disagio, mi circonda col suo sguardo insistente mentre pronuncia delle frasi apparentemente innocue. Mi sforzo di rispondere, cordiale, ma guardo di nuovo l’orologio: quando finirà quest’agonia?
Il pesce cattivo continuava ad accerchiare il mio povero Orlando, e io sentivo un’angoscia crescente nel guardare quella scena. Decisi che doveva finire. Mentre penso a questo sento come una scossa sotto la mia sedia, un impulso che mi dice di fuggire, eppure non riesco ad alzarmi, rimango immobile. Anche Orlando se ne stava immobile, mentre mi affrettavo a riempire la sua boccia di vetro e a recuperare il retino. Dovevo tirarlo fuori di lì, prima che fosse troppo tardi.
Poi, finalmente, sento qualcuno che mi chiama – Orlando nel frattempo è saltato via veloce, fuori dall’acquario, nelle mie mani – è arrivato il mio turno, scatto in piedi, come una molla – mi sono affrettata a rimetterlo nella sua boccia, prima che fosse troppo tardi – «Sì, è proprio il mio nome» mi dico, mentre sguscio via sotto lo sguardo cattivo del tipo smilzo: è ora di andare.